Prosegue questo mercoledì ‘I mestieri di una volta’, un ciclo di servizi de ‘La Voce di Genova’ dedicato a chi ancora svolge quei mestieri antichi, con il medesimo impegno e la medesima passione. Ogni settimana vi racconteremo storie di ingegno, di orgogliosa resistenza, di rinascita, di ritorni alla moda: storie fatte di mani sapienti, di teste pensanti, di tantissimo amore e attaccamento alle proprie radici. Buona lettura!
Una fila di saracinesche chiuse, un grigio che fa a gara con i muri in pietra dei secolari palazzi di via San Bernardo, interrotto di tanto in tanto da qualche luce.
Tra questi temerari che tenacemente resistono, fa capolino una piccola bottega con una porticina azzurra. Uno spazio stretto, affollato di ogni attrezzo del mestiere, che si svela una volta varcata la soglia della bottega del calzolaio Alberto Acosta.
Qui, tra profumo di cuoio e l’odore della colla, il ritmo cadenzato del martello scandisce le ore e accompagna il meticoloso lavoro di questo artigiano capace di dare nuova vita a scarpe, borse e oggetti che la logica del consumo rapido vorrebbe relegare all'oblio. Il suo laboratorio è un'isola felice dove il tempo sembra concedersi una pausa, un santuario dedicato alla cura minuziosa e alla qualità intrinseca del lavoro artigianale.
"Sono arrivato in Italia dopo tanti anni di viaggi. Prima la Spagna, poi la Francia, la Svezia, la Germania, e infine qui, a Genova. Ma la mia storia comincia in Uruguay, dove mio padre era calzolaio. Ho imparato da lui, da bambino, nella sua bottega" confida Acosta, la voce pacata e lo sguardo di chi ha raccolto esperienze in ogni angolo del mondo senza mai dimenticare le proprie radici.
Il suo percorso professionale è un mosaico di incontri, un viaggio attraverso diverse occupazioni, dalla ristorazione all'edilizia, fino al ritrovamento della sua vera vocazione in un mestiere dalla storia antica, ma di un'attualità sorprendente.
"Ho fatto di tutto. Ma alla fine ho deciso di investire i miei risparmi in attrezzi e aprire la mia bottega. È il mestiere che conosco meglio, e che mi appartiene” Questa affermazione racchiude la fierezza di chi ha scelto di seguire la propria passione, un filo conduttore che lega la sua infanzia uruguaiana alle strette vie del capoluogo ligure.
In un'era caratterizzata dal dominio incontrastato del fast fashion e da una produzione seriale che sacrifica la durabilità sull'altare del profitto immediato, l'opera di Alberto Acosta si erge come una forma di resistenza pacifica ma tenace. "Una volta, il calzolaio era una figura essenziale, come il panettiere. Si mangia e si cammina. Non si poteva fare a meno né del pane né delle scarpe. Oggi, invece, tutto si butta via con troppa facilità" Un’amara constatazione che sottolinea come sia cambiato in modo radicale il nostro rapporto con gli oggetti, un'evoluzione che ha svalutato il lavoro artigianale e incentivato uno spreco dilagante.
L'intervento di Acosta sulle calzature e sugli altri oggetti non è un semplice gesto riparativo, ma un atto dal profondo significato simbolico. Ridare vita a un paio di scarpe significa preservarne la storia, onorare la materia, sottrarla alla discarica e promuovere un modello di consumo più consapevole e rispettoso.
Oggi, in un contesto socio-economico votato all'obsolescenza programmata, la riparazione assume quasi i contorni di una scelta controcorrente, un sussulto di buonsenso in un sistema che spinge incessantemente all'acquisto. "Non so se stiamo davvero tornando a riparare le cose. Forse alcuni ci provano, ma il sistema non lo permette. La grande industria ha interesse che si continui a comprare, non a riparare”. La sua analisi lucida e disincantata mette in luce le dinamiche perverse di un mercato che prospera sull'insoddisfazione e sul continuo rinnovamento. E l'esempio che porta è emblematico: "Le scarpe di oggi sono progettate per durare poco, la gomma si consuma in fretta. È tutto studiato per costringerci a comprare di nuovo"
Testimone privilegiato dei cambiamenti che hanno investito il tessuto urbano, Alberto ha visto la sua via, un tempo vibrante di piccole botteghe artigiane, svuotarsi progressivamente.
"Quando ho aperto, questa via era piena di botteghe, di piccole attività. Oggi molte sono chiuse. Le grandi catene, l'e-commerce, hanno cambiato il modo in cui compriamo, e con loro sono cambiate anche le nostre abitudini. Ma il prezzo che paghiamo è alto: perdiamo il rapporto con le persone, perdiamo la qualità, perdiamo la possibilità di scegliere davvero”.
Lo sguardo di Alberto Acosta sul futuro del suo mestiere è realista, consapevole delle sfide che lo attendono. "Se fossimo di più, se ci fossero più riparatori di qualsiasi cosa, sarebbe una concorrenza per le grandi industrie. Ma loro non vogliono che le cose si riparino, vogliono che si comprino nuove" Questa riflessione amara non scalfisce però la sua passione e la sua dedizione al lavoro.
Continua a operare nella sua bottega, animato dalla convinzione che il suo sia un piccolo ma significativo atto di resistenza culturale ed economica. "Prima avevamo tre paia di scarpe: uno per la scuola, uno per giocare, uno per le occasioni speciali. Oggi ce ne sono venti, ma valgono meno. Io voglio che il mio lavoro abbia ancora un senso. Voglio che la gente capisca che dietro un oggetto c’è del valore, c’è il lavoro di qualcuno" In queste parole risuona un appello alla consapevolezza, un invito a riscoprire il valore intrinseco degli oggetti e del lavoro umano che vi è celato.
Alberto Acosta non è semplicemente un calzolaio. È un custode di un antico saper fare, un testimone di un'epoca in trasformazione, un artigiano che con la sua tenacia incarna la speranza di un futuro in cui la qualità e la durabilità possano tornare a guidare le nostre scelte di consumo. Il suo sogno va oltre la semplice riapertura delle botteghe nel centro storico; aspira a una vera e propria riscoperta dell'artigianato come valore fondamentale, come antidoto allo spreco e come espressione autentica dell'ingegno umano.