Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureando in Scienze della Comunicazione. Oggi parliamo di Valia Galdi, campionessa di vela paralimpica.
Valia Galdi, è di pochi giorni fa la notizia del raggiungimento della terza posizione globale nel Parasailing Hansa 303. Un successo enorme, cosa ha pensato quando ha letto le classifiche?
“Ero sorpresa, considerando che ho una certa età e ho iniziato a fare questo tipo di attività solo di recente. È un risultato dovuto agli esiti positivi delle mie partecipazioni agli eventi internazionali e nazionali: il Mondiale dell’anno scorso in Olanda, sia di classe sia World Sailing, per il quale ringrazio la Federazione Italiana Vela, oppure il campionato italiano di quest’anno a Mestre, dove sono risultata prima classificata tra le donne. Tutto questo mi ha permesso di raggiungere la terza posizione mondiale, un risultato centrato dato che la occupo anche con un certo margine. Ne viene fuori una classe in grande crescita, che negli ultimi anni ha avuto un grande sviluppo, sia dal punto di vista numerico sia della diffusione sui territori. Questo anche grazie all’impegno delle Federazioni, per un movimento Parasailing che punta a ritornare alle Paralimpiadi. Da quest’anno ci sono le più giovani che stanno incalzando, e avere un’atleta che ha raggiunto certi risultati può essere per loro una spinta a fare meglio”.
Al Mondiale dell’anno scorso è arrivata quarta: per lei era un esordio, ma è riuscita a battere campionesse anche molto più esperte. Qual è il suo segreto?
“Credo sia la costanza. La fortuna di essere a Chiavari mi permette di allenarmi durante l’anno, e il far parte della squadra di alto livello mi ha permesso di usufruire di tutte le informazioni possibili durante i ritiri intensivi organizzati dalla Federazione. Questo è stato fondamentale in vista del Mondiale”.
Come ha detto, lei ha iniziato in età adulta. Com’è nato il suo amore per la vela?
“Da ragazzina facevo equipaggio in una barca d’altura, ero una prodiera, e la passione è nata così. Poi, dopo il mio incidente non sono più riuscita ad andare in barca, anche se non avevo mai pensato alla parte sportiva, i miei interessi erano altrove. Nei primi anni Duemila ho provato a salire su barche paralimpiche ma non mi trovai molto bene. Inoltre vivevo a Genova e dovevo riconfigurarmi da molti punti di vista, sia lavorativi che di maternità. L’idea di tornare in barca l’ho sempre avuta, perciò quando sono arrivata a Chiavari ho cercato di entrare in questo mondo, sapendo che lì ci fosse un allenatore e un porto comunale accessibile. Perciò, grazie alla Lega Navale di Chiavari abbiamo iniziato questo tipo di attività, ed è successo molto tardi, quando avevo 55 anni. Le possibilità che dà questo tipo di barca sono straordinarie: permette di partecipare sia a gare molto specialistiche e tecniche di Parasailing, sia in gare di classe, che sono Open e in cui puoi incontrare persone normodotate, di età diverse, talvolta anche istruttori… Questo è molto bello, perché ti permette di capire davvero il tuo livello. Anche se abbiamo dei campionati Open, spesso i campioni sono persone disabili. Infatti, quest’anno il campione è Carmelo Forestieri, il presidente della classe, arrivato primo in un confronto con persone anche normodotate”.
I suoi successi sono un esempio di come, nonostante le difficoltà e i limiti che il corpo può porre dinanzi, ci sia sempre un modo per oltrepassarli. Lo sport è sicuramente uno di questi…
“Lo sport è uno strumento straordinario. Lo è dal punto di vista della qualità delle esperienze e da ciò che ognuno ne trae. C’è un continuo apprendimento tecnico, hai la possibilità di uscire dalla tua zona di comfort per confrontarti con un mondo, è una crescita complessiva. Senza contare le relazioni che si instaurano con gli altri atleti, soci e antagonisti al tempo stesso. In acqua siamo tutti agonisti, fuori ci aiutiamo l’un l’altro. Questo è molto bello, ed è tipico di questa classe in particolare. È una grande esperienza di vita”.
Lo sport è, o almeno dovrebbe essere, inclusività: un qualcosa che, spesso, purtroppo viene meno quando si parla di disabilità. Qual è la sua esperienza in merito?
“Il ragionamento da fare è molto ampio. Noi siamo una classe in crescita, ma in tutta Italia si contano una ventina di circoli. Questo nonostante i chilometri di costa e i tanti circoli velici. Significa che di lavoro da fare ce n’è eccome. Un tema importante sono le infrastrutture, quindi l’accessibilità ai moli, l’utilizzo dei porti, degli approdi, dei circoli velici, i servizi igienici, gli spogliatoi, le basi nautiche o i punti ristoro. Dall’altro lato, c’è il problema di finanziare e sostenere queste attività, che hanno delle ricadute importanti sull’autonomia delle persone o sulla capacità dei giovani di esprimersi in maniera attiva. Tutto questo ha un valore sociale importante, oltre che sportivo. È un’organizzazione in gran parte volontaristica, e questo è sia la sua forza che la sua debolezza: le persone che agiscono sono estremamente motivate, ma se qualcuno smette, per qualsiasi motivo, si perde un’esperienza fondamentale. Manca una programmazione pubblica sullo sport in generale, rispetto ai risultati che gli sportivi hanno in Italia. Nel nostro caso in particolare, si tratta di attività ancora largamente basate sul volontarismo”.
Tra pochi giorni inizieranno le Paralimpiadi, un altro esempio di come “volere” sia “potere”. L’ultima campagna lanciata dal Comitato recita: «Io non partecipo alle Paralimpiadi. Gareggio». Troppo spesso, infatti, ci si dimentica del valore competitivo di questi eventi…
“Quando sei in mare, della competitività te ne rendi conto immediatamente. All’interno, è un aspetto che emerge subito. Nella mia esperienza, è una competitività sana: quando sei a terra, all’aspetto competitivo si affianca quello sociale, umano, di rapporto tra le persone. Un qualcosa che difficilmente ho trovato in altri contesti. In mare abbiamo davvero il coltello tra i denti, l’agonismo esiste eccome, e se la classe è cresciuta tanto negli ultimi anni è perché tutti cerchiamo di migliorare per alzare l’asticella. Siamo agonisti, ma insieme viviamo una dimensione sociale di attenzione al prossimo e di comprensione delle difficoltà altrui”.