Fra i tanti talenti cresciuti tra le fila del cosiddetto ‘indie’ italiano, che ha visto il suo momento più splendente tra il 2016 e il 2019, c’è anche Samuele Torrigiani, toscano, medico specializzato in psichiatria e che attualmente presta servizio in carcere, e famoso con il nome d’arte Postino. E se oggi in tanti considerano quel fenomeno ormai spento, non si può non ricordare che è proprio grazie alla fame di novità che artisti come Calcutta, Gazzelle, Lo Stato Sociale, giusto per citarne alcuni, sono riusciti in breve tempo a collezionare sold out ai concerti live e consensi di pubblico sempre più ampi.
Di questo, e di tanto altro, abbiamo parlato con il cantautore fiorentino che si esibirà per la prima volta a Genova al Balena Festival il prossimo 26 luglio, in apertura a Fulminacci, portando finalmente live il suo nuovo lavoro discografico ‘L’ordine delle cose da dire’, pubblicato quattro anni dopo il ritiro dalle scene per completare il percorso di studi. Il suo primo album, ‘Latte di soia’, è entrato nel cuore del pubblico più attento a questo segmento musicale grazie a testi coinvolgenti, temi sentimentali e sonorità accattivanti, al punto da totalizzare ventidue milioni di ascolti solo sulla piattaforma Spotify.
Il successo del primo album, poi lo stop di quattro anni per portare a termine il percorso di studi, e oggi un nuovo lavoro e un tour per farlo conoscere. È stato difficile conciliare la carriera di medico e quella di musicista e cantautore?
“È stato sicuramente complesso. Quando il progetto Postino si è avviato io mi ero appena laureato in medicina e avevo deciso di dedicare un po’ di tempo e spazio a questa passione, che era sempre stata messa da parte perché durante il percorso di studi non riuscivo. Mi sono fermato dopo la laurea, ho fatto uscire prima i singoli e poi l’album, che hanno avuto più successo del previsto: all’inizio doveva essere un progetto di nicchia, nato per vendere agli amici, e invece è diventato un caso nazionale. Il problema è sorto due anni dopo, quando è venuto il momento di completare il percorso di specializzazione in psichiatria: c’era un incompatibilità contrattuale, non potevo nemmeno volendo continuare il progetto musicale perché per il livello a cui lo facevo era considerato un’entrata lavorativa incompatibile con la borsa di studio della specializzazione. Quindi è stato uno stop forzato, poi in parte ero anche un po’ saturo dai primi anni in cui tutto era partito così a bomba in un mondo che non conoscevo, e in parte anche io desideravo fermarmi… forse non per quattro anni (ride) ma per un periodo che mi serviva a rimettere a posto le idee. C’è poi stato il Covid e tutto quello che ne è conseguito e alla fine quel periodo è passato velocemente. Nel mondo della musica quattro anni sono una distanza siderale, è cambiato tutto, e quando ho deciso di tornare ad affacciarmi a quel mondo era completamente diverso rispetto a come lo avevo lasciato. Chi mi seguiva però fin dal 2018/2019 è venuto ai concerti di quest’inverno, quelli del ritorno, e hanno mostrato un attaccamento che non mi aspettavo. Abbiamo avuto tanti sold-out, è come se per il pubblico questo tempo non fosse mai passato”.
Oltre alla situazione musicale che è cambiata in questi anni ascoltando il tuo nuovo lavoro si capisce che sei cambiato un po’ anche tu: rispetto a ‘Latte di soia’, il nuovo ‘L’ordine delle cose da dire’ è disco più maturo, che però non ha perso quel tocco malinconico che fin dai primi pezzi ti ha contraddistinto…
“In questi quattro anni per me è cambiato tutto a livello personale: da venticinquenne ora sono ormai entrato nei trenta e sono di conseguenza cambiate le priorità della vita. I problemi che avevo sono ormai superati e ne sono subentrati altri: case, mutui, bollette, tutto un altro tipo di approccio al lavoro… insomma, la classica routine del mondo degli adulti in cui in parte ci si trova infilati dentro senza sapere come ci siamo arrivati. Quando mi metto a scrivere, però, quello che viene fuori è l’esigenza di raccontare quel momento lì e tutti i brani del nuovo album, a differenza del primo che era più improntato sul romanticismo e gli amori di quell’età, sono basati su un percorso esistenziale, sul domandarsi dove siamo e dove vogliamo andare e tutte le incertezze che ne derivano. Forse è anche un disco più difficile da comprendere, non è così immediato come il primo e merita più ascolti perché anche i testi sono molto densi… Al primo ascolto probabilmente non è così catchy e non si riesce a cogliere tutto, poi riascoltando si comprendono le sfumature, che era un po’ quello che volevo fare. Nel futuro chissà, potrei tornare a fare pop come 'Latte di Soia' e meno cantautorato”.
Sei stato uno dei grandi nomi dell’indie che fu… Oggi, secondo te, quella corrente è morta?
“È una domanda che mi fanno spesso. Dal 2016 al 2019 c’è stata una nuova ondata di musica indipendente, che ha portato un nuovo modo di fare musica, non un nuovo genere musicale… Era sempre pop cantautorale, ma cambiava l’approccio. Quella ventata di freschezza si è persa perché poi gli artisti che ne facevano parte sono stati inglobati dalle major, e l’indipendenza si è persa, non c’è proprio più. È poi arrivata la trap che ha cambiato il panorama musicale, e oggi siamo tornati un po’ indietro: si ascolta ciò che passa in radio, ciò che viene mandato in tv dai talent o da Sanremo e si prende per buono quello, senza tanta volontà di ricercare musica indipendente, cosa che era tipica di quegli anni. Prima di avviare il mio progetto musicale, con i miei amici giravamo per andare a cercare i concerti di piccoli gruppi, andavamo anche a ore di distanza per assistere agli spettacoli degli emergenti… Siamo stati al primo concerto dello Stato Sociale, un elemento che oggi si è un po’ perso. C’è invece volontà di andare allo stadio o di andare a sentire l’artista già arrivato, meno la parte emergente. Bisogna tener conto del fatto che, grazie ai social e a causa loro e dei digital store, il mondo degli emergenti si è saturato, si è riempito di talmente tanti artisti che ora emergere è di nuovo diventato impossibile”.
Oggi sono i grandi nomi a collezionare sold out ai concerti, mentre i nuovi talenti fanno fatica a riempire piazze e vendere biglietti…
“Nel 2016 era il contrario: i piccoli concerti erano pieni di gente, mentre i grandi nomi facevano più fatica. Gli artisti emergenti nel giro di poco tempo sono passati dai piccoli club ai palazzetti, una gavetta ridotta se vogliamo… Io mi sono fermato prima ancora di poter vedere il progetto crescere, e oggi dal club riparto”.
Per tanti sarà la prima occasione per vederti live: cosa ci si deve aspettare da un tuo concerto?
“È la prima volta che lo spettacolo live va in giro in full band: siamo in cinque sul palco, è tutto suonato dal vivo, ci sono cinque musicisti e io in parte suono e in parte canto. I brani vengono riprodotti fedelmente rispetto al disco, ma sono un po’ riarrangiati in chiave live per spingere un po’ di più. E poi ci sono classici intermezzi in cui cerco di dialogare con il pubblico e di trovare un feeling con chi mi segue”.
Dopo di te suonerà Fulminacci, ti fermerai a sentire il concerto?
“Sicuramente sì, almeno per la prima parte: il giorno dopo suoniamo a Napoli e dobbiamo ripartire in serata per fermarci a dormire a metà strada, altrimenti non arriviamo in tempo per il soundcheck… Spero di riuscire a fermarmi per un po’, Fulminacci è uno degli artisti che considero più simile a me, sia per l’interpretazione dei testi sia per la scrittura musicale”.
I biglietti sono disponibili su Dice e su TicketOne.
Qui il programma completo della quinta edizione Balena Festival.