Dopo più di trent’anni sono ancora tante le domande senza risposta che riguardano la Sicilia, Palermo, le stragi compiute dalla mafia e le vittime impossibili da dimenticare. Lo sa bene Tony Gentile, fotoreporter e autore dell’iconico scatto ai giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone diventato uno dei simboli della lotta alla criminalità organizzata, che ha dedicato la sua carriera, fin da giovanissimo, a raccontare con le proprie fotografie storie poco chiare e indimenticabili. “Qual è la verità?” si chiede il fotografo palermitano, senza fornire risposte se non quelle interpretabili negli occhi e nelle espressioni dei soggetti immortalati, esposte fino al prossimo 9 giugno nel la Sala del Munizioniere di Palazzo Ducale nella mostra intitolata “Luce e memoria”.
Un percorso per immagini che accompagna il visitatore in un viaggio in un periodo storico, che tocca sì i momenti degli attentati, delle stragi, delle violenze inconcepibili ancora oggi; ma che sa anche riconoscere quel che ha fatto da contorno, lo sgomento delle persone che hanno assistito ai drammatici eventi, le proteste, il desiderio di dire basta all’orrore.
Circa cinquanta scatti, rigorosamente in bianco e nero, in grado di trasportare in un mondo solo all’apparenza lontanissimo.
Come si è avvicinato al mondo della fotografia?
“Ho scoperto la macchina fotografica da un parente lontano che era anche il nostro fotografo di famiglia: una volta esisteva questa figura perché non tutti avevano la possibilità di avere una macchina. Lui arrivava ai compleanni con le sue attrezzature e a me piaceva moltissimo: prima ho cominciato ad avere trasporto per il mezzo, poi ho iniziato anche ad appassionarmi alle foto di altri fotografi dopo aver scoperto anche la camera oscura. Grazie a Letizia Battaglia e Franco Zecchin ho capito che con le immagini si può contribuire alla crescita delle persone: l’idea che mi sono fatto del mondo, della legalità, è passata attraverso il lavoro di questi grandi fotografi”.
Palermo in quegli anni stava vivendo un momento molto particolare…
“Era una città fertile perché c’erano storie molto grosse che finivano sui giornali nazionali e internazionali, quindi era un posto dove c’era ‘mercato’. Quando vivi con quella materia sotto agli occhi è ovvio avere delle opportunità. Sono entrato nel mondo del giornalismo e nel 1992 ho iniziato a collaborare con l’agenzia internazionale di stampa Reuters: è stata la mia vita per trent'anni anni, una valanga partita quasi casualmente che è aumentata sempre di più. Non mi sono mai fermato dal lavoro, ho fatto un sacco di cose e quanto esposto qui è solo un piccolo pezzo di quello che ho fatto”.
Come sono state selezionate le foto di questa mostra?
“La mostra è composta da quaranta foto circa tratte da un libro di cento, è stata una selezione impegnativa. Si tratta di foto che raccontano la vita normale di una città che vive in una condizione anormale, dove con il tritolo fa saltare in aria un’autostrada… che non è normale, ma noi palermitani in qualche modo è come se fossimo abituati a queste cose. In quegli anni c’erano stati più mille morti ammazzati: però finche i mafiosi si uccidono tra loro vedi le cose con un certo distacco, ma quando saltano in aria i palazzi e le autostrade e ci sono le bombe in mezzo alle case non è più normale. La gente allora ha reagito, si è arrabbiata e in quel periodo c’è stato un cambiamento nell’atteggiamento delle persone, ci sono state manifestazioni, catene umane, migliaia di persone e di bambini per strada… è stato un cambiamento importante. E poi ancora il cambiamento politico, la seconda repubblica, i vecchi personaggi politici che sono scomparsi dalla circolazione… nelle mie foto c’è anche questo pezzo di racconto, tanti piccoli tasselli che rappresentano il quadro storico di quel che è successo in quegli anni. L’allestimento della mostra è in qualche modo molto confuso, non è razionale, vuole rappresentare questa idea di confusione, di poca chiarezza che ancora oggi dopo trent’anni abbiamo di questi fatti”.
Quale è stata la cosa più difficile, l’emozione più grande nel trovarsi di fronte a determinate scene durante il suo lavoro?
A Capaci, la sensazione di incredulità: non puoi credere ai tuoi occhi e a quello che è successo. In quel caso non abbiamo visto la morte in diretta, perché eravamo tenuti a distanza, soprattutto da dove c’erano i tre ragazzi delle scorte. In via D’Amelio, invece, abbiamo proprio visto la morte: abbiamo sentito gli odori di gomma e di carne bruciata, l’orrore. Era veramente terribile, e in quel momento ti senti sdoppiato: una parte di te che vuole fare il suo lavoro e deve farlo, e una che vorrebbe scappare, fermarsi … “perché sono qui” ti chiedevi, perché era pura macelleria. Non puoi dimenticarlo: senti un allarme, la sirena e ti viene in mente. La mostra, infatti, ha anche una parte audio che riporta tutti questi suoni e che ti fa entrare completamente in questi fatti”.
Nelle foto ci sono tanti bambini, giovani. In quegli anni pubblicare immagini dove ci sono così tanti ragazzi che reazioni creava? Come venivano accolte?
Molte delle foto qui sono inedite, sono uscite solo sul mio libro e molte non sono state proprio pubblicare sui giornali. Spesso facevo le foto anche solo per me. Molte delle situazioni riportate qui sono state immortalate in momenti in cui non stavo lavorando. In quegli anni non c’era la privacy, quindi il problema non si poneve: si pubblicava qualsiasi cosa sui giornali, tra cui i bambini sulle prime pagine. La maggior parte delle foto era libera, la gente si faceva fotografare senza alcun problema, nessuno metteva le mani davanti.
Non mi piace più fare questo lavoro anche per questo, per un eccesso di privacy che non ha senso. In queste foto c’è la presentazione di un periodo storico e della sua società, e come nelle foto dei grandi fotografi noi leggiamo la storia attraverso i bambini. Oggi i bambini non possono più fotografati e non stiamo scrivendo con le immagini questa storia, la stiamo abbandonando per la privacy, quando gli stessi bambini sono postati sui social dagli stessi genitori. C’è un problema di racconto, di narrazione, di storytelling”.
C’è qualche consiglio che vorrebbe dare a un giovane?
“Di non fare questo mestiere, se per mestiere intendiamo che uno fa una cosa e qualcuno ti paga per farla, perché questo non esiste più. Se per mestiere invece intendiamo la pura passione per la narrazione e il racconto fotografico a qualsiasi costo, allora esiste e richiede tanti sacrifici. Ormai tantissimi fotografi che fanno approfondimento non hanno più come obiettivo la pubblicazione sul giornale, quello che era fondamentale una volta per avere la visibilità, ma la pubblicazione di libri autoprodotti, la partecipazione a concorsi che ti danno la possibilità, incassando dei soldi, di finanziare e alimentare i tuoi progetti. Una volta si finanziavano pubblicando le foto sui giornali, oggi non è più così: è un mestiere che per alcune direzioni è già morto, ma è destinato a morire ancora di più e non c’è alternativa. Bisogna trovare altre strade di finanziamento per dare la possibilità di raccontare storie che altrimenti non racconterà nessuno”.
L’immagine più conosciuta tra i suoi lavori è lo scatto di Falcone e Borsellino. In che contesto scattata?
“Era il 27 marzo 1992 a Palermo, 57 giorni prima della strage di Capaci, che a sua volta è avvenuta 57 giorni prima della strage di via D’Amelio. C’era una tavola rotonda in cui si parlava delle relazioni tra mafia e politica, perché due settimane prima era stato ucciso Salvo Lima. Si presentarono moltissimi giornalisti che volevano sapere che stava succedendo a Palermo da Falcone e Borsellino, perché la notizia aveva sconvolto tutti. In questa situazione io ho seguito solo loro due: se ha un’idea il fotografo deve aspettare che si concretizzi. Volevo coglierli in un momento spontaneo quindi ho atteso, e quando ho intuito che stava per succedere qualcosa ho provato ad anticiparlo, e questo è il risultato.
Quella sera ho fatto una foto dove sono complici, il resto lo ha fatto Totò Riina quando li ha fatti saltare in aria a distanza di due mesi l’uno dall’altro, e lo ha fatto la gente che ha adottato questa foto come simbolo. Perché? Perché sono veri. Perché sono spontanei e non si stanno nascondendo come fanno i politici di oggi dietro la mano per non far leggere il labiale, sono veri e sono vivi e il sorriso incoraggia e avvicina le persone. Se ti guardo in maniera torva tu ti allontani, mentre se sorrido ti avvicini… qui ci avvicinano a loro e alla possibilità di essere come loro. La storia di questa foto è semplice, molto più di quel che si immagina”.
Qual è la foto che avrebbe tanto voluto fare e non c’è riuscito?
“Difficile, dovrei dirlo di una foto che qualcun altro ha fatto… io non lavoravo già più, mi sarebbe piaciuto essere a Capitol Hill durante la rivolta al Campidoglio.
Ci sono tante foto che mi piacciono di altri fotografi, semplici che mi hanno coinvolto… magari un giorno potrei pubblicare un libro su questo”.
Conosce la nostra città, ha avuto modo di visitarla? C’è qualche cosa che particolarmente l’ha attirata?
“Ci sono stato nel 2001 per il G8, quindi diciamo che la conoscevo ma da un altro punto di vista; ho lavorato molto anche dentro Palazzo Ducale in quegli anni e oggi ci sono tornato con le mie foto. Il centro storico e i vicoli sono molto belli e in qualche modo avvicinano a Palermo, una città di mare. Sono rimasto colpito da una cosa, vicino alla stazione Brignole: si parla tanto di abusivismo in Sicilia, ma l’Italia è tutta simile: l’arroganza, il potere a tutti i costi, il pensare di poter fare quello che si vuole riguarda tutti, non solo una città”.
Orario di visita della mostra: da martedì a domenica, ore 9-19. Lunedì chiuso. Ingresso libero.