Videogallery - 18 aprile 2024, 08:00

Testimonial del dialetto - Marco Carbone, “U Carbun”: “Ho imparato il genovese grazie al reggae” (Video)

Tutto nasce lavorando al mercato a vendere frutta e verdura, lì ha avuto modo di immergersi nella lingua ligure. La musica poi lo ha indirizzato alla riscoperta delle sue radici e della sua cultura

Testimonial del dialetto - Marco Carbone, “U Carbun”: “Ho imparato il genovese grazie al reggae” (Video)

Continua il ciclo di servizi de ‘La Voce di Genova’ che abbiamo voluto chiamare ‘Testimonial del dialetto’. Ogni giovedì vi faremo conoscere, o riscoprire, persone e personaggi che promuovono la lingua e la cultura genovese, con orgoglio, impegno, passione e tanto amore. E lo fanno sia in televisione che sui libri, che sui palchi di un teatro, sui social, alle conferenze, con la musica e le canzoni. Mirabile è l’azione di chi spende il proprio tempo per conservare una tradizione, ed ecco perché ci fa enorme piacere raccontarla. Anche attraverso video… ovviamente in genovese! 

Dopo l'intervista a Gilberto Volpara (si può leggere qui), al professore Franco Bampi (si può leggere qui), ad Anto Enrico Canale (si può leggere qui), a ‘Cito’ Opisso (si può leggere qui), a Francesco Pittaluga, (si può leggere qui), ai Buio Pesto: Massimo Morini e Nino Cancilla (si può leggere qui), al rapper genovese Mike fC (si può leggere qui), a Rita Bruzzone (si può leggere qui), ad Andrea Di Marco (si può leggere qui), a Giampiero Cella (si può legge qui), a Paolo Regati (si può leggere qui), oggi abbiamo incontrato Marco Carbone, in arte “U Carbun”.

Marco Carbone, noto anche come "u Carbun", è una figura di spicco della scena musicale e poetica della Liguria. Nato nel 1966 a Genova, ha trascorso la sua giovinezza a Chiavari dove ha coltivato la sua passione per la lingua e la cultura genovese.

Tutto nasce lavorando al mercato a vendere frutta e verdura, lì Carbun ha avuto modo di immergersi nella lingua genovese e di apprenderla direttamente dalle conversazioni quotidiane dei suoi concittadini. Un’esperienza che ha influenzato profondamente il suo lavoro artistico, rendendolo uno dei più autentici esponenti della tradizione linguistica e culturale della regione.

“Faccio parte di quella generazione a cui hanno vietato il dialetto. Tra di loro i miei genitori parlavano in genovese, con i miei nonni parlavano in genovese ma con me e mia sorella parlavano in italiano”. 

Di dove sei?
“Sono nato a Genova, quando avevo dieci anni mio padre ha preso un negozio a Chiavari e ci siamo trasferiti qui. Poi ho iniziato a fare musica reggae. Siccome il reggae parla sempre di radici e cultura mi sono chiesto quali fossero le mie radici e la mia cultura. Da lì ho iniziato a cercare vecchie canzoni in genovese, libretti, mio padre aveva qualche vecchia pubblicazione in genovese, i calendari in genovese. Ho iniziato a studiare e ho trasportato nella musica il mio interesse”. 

Quindi è stato il reggae a riavvicinarti al dialetto genovese?
“Sì. Ho iniziato a suonare con alcuni miei amici più o meno a 16 anni, abbiamo sempre suonato reggae. Alla fine degli anni ’80, avevo poco più di 20 anni, mi sono domandato quali fossero le mie radici e sono arrivato al genovese”.

Come hai deciso di studiare il genovese? Con l’aiuto dei tuoi familiari o amici?
“Ho scritto la prima poesia in genovese tramite una mia professoressa di inglese. Avevo già finito la scuola ma l’ho ricontattata. Lei mi ha mandato dal mitico ‘o Fessûa’ a Lavagna. ‘O Fessûa’ mi ha corretto i primi errori. Quando scrivevo le canzoni le registravo poi nelle cassette e le facevo sentire a mio papà e mi diceva: ‘Qui va bene. No, questa parola è sbagliata’. Poi ho avuto un banco di frutta e verdura nella piazza del mercato di Chiavari, lì mi sono lanciato. Venivano le vecchiette a comprare e mi sono detto: ‘se non lo imparo ora, non lo imparo mai più’”.

Quella è stata una vera e propria palestra.
“Sì, una palestra a cielo aperto. Mi sono buttato ed è andata bene”.

Oggi è cambiata la percezione di chi parla in genovese rispetto a quando hai iniziato a cantare?
“Secondo me ora si è risvegliato qualcosa, c’è un po’ di interesse. Faccio anche parte di coloro che collaborano con la pagina domenicale de Il Secolo XIX. Ogni tanto, circa una volta ogni due mesi, mi capita di scrivere qualche piccolo articolo. Giusto per fare qualcosa in genovese”. 

Quindi tu scrivi anche in genovese, un conto è parlato e un altro scritto, come hai imparato? 
“È un bell’argomento. Ci sono due scuole di pensiero: una fa capo all’associazione ‘A Compagna’ con Bampi che si chiama ‘grafia ufficiale’, poi c’è un altro gruppo di studiosi che hanno dato vita al ‘consiglio per il patrimonio della lingua ligure’ che utilizza un’altra grafia. Si scornano un po’ queste due scuole. Io, per tagliare la testa al toro, scrivo in una grafia ancora differente così non creo problemi”. 

Fai contenti tutti.
“O nessuno. Scrivendo le ‘u’ al posto delle ‘o’, mia mamma, che parla il genovese benissimo ma ha difficoltà a leggerlo, riesce. È un po’ più facile. Ho visto che, ad esempio, il tabarchino a Carloforte mantiene le ‘u’”. 

Futuri progetti musicali? Hai avuto recentemente delle uscite musicali giusto?
“Abbiamo fatto un vinile 33 giri e un paio di video pubblicati su YouTube. A breve vogliamo stampare un altro vinile con il brano dal titolo ‘Unbre de duman’ e un altro brano che si intitola ‘Parlemmu zeneize’ e che non abbiamo mai registrato. Ora abbiamo deciso finalmente di registrarlo. C’è poi un poi un progetto che esula dal reggae, insieme a Pereira de Le Barche a Torsio. Lui ha musicato dieci poesie che ho scritto sul gioco dell’oca. Quindi a breve ci sarà anche un’uscita con il gioco dell’oca, si potrà giocare, leggere le poesie e sentire le canzoni”.

Marco Garibaldi

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