Attualità - 12 marzo 2024, 08:00

L'ultimo rapporto da parte degli esperti: in Liguria sono attive 13.502 frane

Il numero, redatto da Ispra, è reso noto da Guido Paliaga, geologo e presidente della sezione ligure della Società Italiana di Geologia Ambientale: "Fenomeni in aumento anche a causa dei cambiamenti climatici"

L'ultimo rapporto da parte degli esperti: in Liguria sono attive 13.502 frane

Le piogge abbondanti che hanno caratterizzato le scorse settimane e, particolarmente, il fine settimana che si è appena concluso, hanno portato con sé allagamenti e smottamenti di varia natura.

Un leitmotiv per la Liguria che si ritrova a fare i conti con un territorio fortemente montuoso che, saturo, spesso diventa lo scenario di dissesti più o meno estesi, innescati proprio dalle piogge.

“Effettivamente, è piovuto molto in questa prima parte dell’anno, ma rientra nella normale variabilità stagionale - racconta Guido Paliaga, presidente della Sezione ligure di Sigea, la Società Italiana di Geologia Ambientale - Questi fenomeni, l’aumento delle intensità elevate e delle frequenze di pioggia vanno inseriti in un’ottica climatologica di medio e lungo periodo e sono in aumento a causa dei cambiamenti climatici”.

Paliaga prosegue: “Quello che accade quando piove così intensamente su un terreno già saturo d’acqua, fa sì che possano verificarsi inneschi di frane di tipo superficiale. Le frane possono essere di piccole dimensioni, in termini di estensione, ma possono provocare criticità elevate per la popolazione, interruzione delle infrastrutture e, a volte, anche di peggio”.

Che i fenomeni siano in crescita negli ultimi anni è un dato verificato: “Menziono solo alcuni esempi come l’alluvione delle Cinque Terre del 2011, le frane sul territorio genovese e quella di Leivi del 2014 che, purtroppo, causò due morti. Ancora, nell’Imperiese nel 2019 e nel 2021 o la frana che ha abbattuto il viadotto di Madonna del Monte sulla A6 nel 2019. I fenomeni di questo tipo sono molteplici”.

Perché si verificano questi fenomeni, lo spiega nuovamente Paliaga: “Si verificano perché durante le piogge intense, il terreno, soprattutto nei livelli superficiali a elevata pendenza, tende a destabilizzarsi. Si sviluppano dunque le frane che si dicono a ‘sviluppo rapido’ perché avvengono in maniera subitanea e si muovono con una velocità che è molto elevata, raggiungendo i sei metri al secondo. Parliamo di una velocità tale per cui rende sostanzialmente impossibile la fuga”.

A proposito degli ultimi giorni, il presidente di Sigea Liguria sottolinea come non ci siano stati episodi critici legati a movimenti a sviluppo rapido, nonostante rimangano uno dei fattori di pericolosità maggiore per il territorio ligure: “Per l’elevata velocità con cui si sviluppano, anche quando non si tratta di fronti estesi, quando le masse in movimento impattano su un’infrastruttura o una casa, scatenano un potere distruttivo elevatissimo. Quello che abbiamo visto recentemente sono frane poco estese o la riattivazione di quelle già note come quella di Capo Noli che, purtroppo, crea problemi da diverse decine di anni. Questo perché ci sono situazioni che non sono facilmente mitigabili”.

Per Paliaga, le soluzioni da adottare ruotano tutte attorno alla conoscenza del territorio e al suo monitoraggio.

“Occorre cambiare la nostra mentalità nell’approccio al problema - prosegue - Un conto sono le frane a sviluppo rapido superficiale, per cui la cosa importante da fare è non mettersi nelle condizioni in cui si è investiti dal fronte. In generale, serve studiare bene il territorio, monitorarlo, valutare dove si possono sviluppare queste frane, capire dove potrebbero formarsi le frane di neo formazione, cioè frane che attualmente non sono note. Il database IFFI (Inventario dei fenomeni franosi in Italia, n.d..r.), redatto da Ispra, nell’ultimo rapporto ha censito 13.502 frane sul territorio ligure. Si tratta di frane di varia natura, dalle grandi dimensioni a quelle più piccole; frane lente, monitorate e non solo. È un bel numero. Accanto a queste ci sono frane di neo formazione, cioè frane che si possono innescare in altri luoghi rispetto a quelli conosciuti. Occorre fare molta attenzione a questo tipo di frane e valutare dove il territorio è più suscettibile, in funzione di queste piovosità intense, di creare questo tipo di dissesti”.

Questo tipo di approccio, sottolinea Paliaga, è un approccio che deve essere adottato da chi gestisce il territorio: “È essenziale monitorare e conoscere il territorio nel dettaglio. La conoscenza, in generale, è sempre il primo gradino: se non so con cosa ho a che fare, non posso pensare a una strategia per mitigare i problemi”.

Il monitoraggio del territorio, ribadisce il geologo, permette quindi di comprendere appieno l’andamento di certi fenomeni, in particolare delle acque di ruscellamento per quanto riguarda i movimenti franosi. Capire come si muovono le acque, intervenire con la manutenzione ordinaria di caditoie e canali di scolo, spesso può mitigare le criticità. “Come categoria, stiamo cercando di spingere molto sulle manutenzioni. Spesso basta della ordinaria di ciò che abbiamo intorno, cioè del territorio in cui viviamo. Se non si fa quella, prima o poi qualche problema viene fuori”.

Monitorare il territorio vuol dire “valutare le aree a maggior suscettibilità e dissesto, per poter pensare a una scala di priorità di interventi portati avanti con tecniche diverse, anche impiegando per esempio le soluzioni basate sulla natura, sui processi dei metodi naturali, sistemi che permettono, grazie al rinverdimento o alla stabilizzazione tramite metodi non strutturali, anche la diminuzione dei processi erosivi. Questi tipi di soluzioni, in certi casi, sono estremamente funzionali”.

Tra questi ci sono i terrazzamenti, ormai in gran parte abbandonati, caratteristica del territorio ligure che, quando non manutenuti, contribuiscono al fenomeno del dissesto.

Quando si ha a che fare invece con movimenti di grandi dimensioni, “gli interventi sono importanti. In altre circostanze, possono bastare piccoli interventi preventivi”.

“È fondamentale - prosegue ancora Paliaga - che il monitoraggio venga svolto su più fronti. Oggi abbiamo moltissime tecniche e moltissimi strumenti che ci vengono in aiuto, come l’uso delle tecniche satellitari, l’uso di modelli tridimensionali del territorio. Sono dati che permettono di ottenere un’ottima lettura dei percorsi di concentrazione delle acque di scorrimento che sono il primo fenomeno di innesco delle frane, soprattutto di quelle rapide. Ma, insieme a questo, ci vuole una capacità di interpretazione e lettura di questi dati e di lettura di quello che si vede e si riconosce sul territorio. Da questo punto di vista auspico che ci sia un cambiamento dell’approccio. Se le opere di tipo strutturale come lo scolmatore sono esigenze obtorto collo per mitigare i fenomeni di allagamenti nelle zone piane, soprattutto cittadine, è vero però che queste opere vanno accompagnate da quest’azione che invece deve essere fatta sulla scala del bacino idrografico, sui versanti alle spalle della costa, perché altrimenti risolviamo solo una parte del problema che certamente impatta molto i cittadini”.

 È inevitabile associare il distaccamento dei fronti franosi al disboscamento: “È un discorso delicato perché la vegetazione non ha tutta lo stesso effetto. In generale, la vegetazione ha un effetto di protezione rispetto all’impatto della pioggia e allo scorrimento delle acque. Questo è un effetto sicuramente positivo, soprattutto dal punto di vista dell’impatto. Quando si verificano i grandi incendi che asportano la vegetazione su grandi superfici, nel giro delle prime piogge successive all’evento, e per qualche anno, i fenomeni erosivi e di dissesto, magari in un bacino idrografico, risultano enormemente aumentati, perché non c’è questo effetto di protezione sia dell’impatto che dello scorrimento dell’acqua. L’effetto della vegetazione è assolutamente essenziale dal punto di vista della stabilizzazione ma ci vuole la vegetazione corretta. In ambito mediterraneo, devo cercare di impiegare prevalentemente essenze locali con un privilegio verso quelle che offrono maggiore protezione. Per esempio, il leccio, essenza autoctona tipica delle nostre coste, è un’essenza perfetta da questo punto di vista, aiuta la stabilizzazione e ha una buona copertura fogliare che permette una buona protezione. Meno adatti invece sono i pini perché producono un effetto minore e il loro apparato radicale è tendenzialmente più superficiale”.

Tra le soluzioni che si possono adottare per la salvaguardia e il consolidamento del territorio, Paliaga indica quelle di ingegneria naturalistica e affini: “Si possono impiegare strutture leggere di contenimento del movimento come, per esempio, palificazioni in legname; o, ancora, si può intervenire con il rinvenimento delle zone, impiegando tecniche di stabilizzazione il più possibile naturali”.

Isabella Rizzitano

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