Evidentemente, c’è qualcosa nell’aria. C’è qualcosa che si respira, se dal quartiere di Quezzi provengono alcuni degli interpreti della musica lirica più famosi in tutto il mondo. A rielencarli è uno di loro, il tenore Francesco Meli, 43 anni, amatissimo e applauditissimo ai quattro angoli del pianeta, come personaggio verdiano ma non solo.
“Forse sì, è vero. A Quezzi, precisamente a largo Merlo, c’è qualcosa: sono di qui, oltre a me, i fratelli Marco e Fabio Armiliato, era di qui Gianni Mongiardino, sono di qui un sacco di orchestrali, anche del Carlo Felice. Era di Marassi Elisa Pegreffi del Quartetto Italiano. Dobbiamo essere orgogliosi delle nostre origini e della nostra città”. Meli lo è, e oltre a portare il nome di Genova nel mondo, forma al Teatro della Gioventù i cantanti di domani, con l’Accademia di Alto Perfezionamento dell’Opera Carlo Felice, che lo vede nel ruolo di docente insieme alla moglie, la soprano Serena Gamberoni. Sabato, alle 18, allievi e insegnanti terranno un concerto gratuito al Carlo Felice, nell’ambito del conferimento a Meli della Croce d’Oro di San Giorgio.
Vent’anni fa, nel 2004, cantò per la prima volta al Carlo Felice. Poi ha girato il mondo.
“Io ho sempre cantato. Mio padre era un appassionato di lirica e di sinfonica, mio nonno e le mie zie amavano cantare. Da ragazzo ho cominciato a studiare il pianoforte, poi a 17 anni sono entrato nel coro Monteverdi di Silvano Santagata e da lì mi sono avvicinato al canto prendendo le prime lezioni con Marica Guagni. Sono allora entrato in Conservatorio. Nel 2002, ero ancora studente, ho debuttato al Festival di Spoleto dove ho conosciuto Vittorio Terranova che è diventato il mio insegnante. Da lì è partita la mia carriera. Nel Carlo Felice sono arrivato esattamente nel 2004: fu una grandissima emozione perché è il teatro della mia città. Ho sempre voluto cantare, sin da quando ero piccolo: mia mamma si ricorda che cantavo di tutto”.
Negli ultimi anni si è sempre più affermato come interprete di Verdi, ma ha cantato anche altre opere.
“Diciamo che come interprete verdiano sono particolarmente richiesto. Certo, ho un ricco repertorio, direi che dopo ventidue anni ho cantato oltre cinquanta titoli. In Italia il pubblico è molto attento e molto esigente, lo stesso in Germania e in Spagna. Molto calore lo trovo in Sud America, lì amano veramente moltissimo l’opera italiana”.
Come mai voi cantanti lirici ve la “tirate” meno rispetto ai colleghi della musica leggera?
“Siamo più normali, anche perché siamo meno riconoscibili. Ma quando entriamo in un teatro, la tensione poi è la stessa e la paura di essere ‘pizzicati’ c’è sempre. I cantanti di musica leggera hanno una notorietà più ampia rispetto alla nostra e si possono permettere di essere un po’ più ‘capricciosi’. La nostra professione, quella dei cantanti lirici, è diventata più semplice anche nella quotidianità: noi siamo più analogici, non siamo molto digitali. Siamo più artigianali. Non abbiamo effetti per cantare, né supporti: la voce o ce l’hai o non ce l’hai. È tutta farina del nostro sacco. L’orchestra o la senti o non la senti, se un passaggio va a stento non lo puoi ripetere. Noi facciamo quasi tutto dal vivo, la musica lirica registrata è ridotta all’osso. Quindi se sai fare, in teatro vai avanti, altrimenti finisci a casa”.
Ha mai cantato da ammalato?
“In un anno normale, la tua voce la avrai dieci volte su cinquanta. Le altre quaranta, fai subentrare il mestiere”.
I suoi tre figli cantano?
“La grande lavora in Val Gardena, i due piccoli sono con Serena e con me, ma non canta nessuno di loro. Conoscono la musica, vengono all’opera ma nessuno canta e non hanno approfondito lo studio di strumenti. Mi sarebbe piaciuto, ma non ho voluto mai forzare”.
Essere famoso nel mondo non le impedisce di tornare a Genova a insegnare canto ai ragazzi.
“È giusto che sia così. Questa città mi ha dato moltissimo. Anche al Conservatorio i miei compagni volevano studiare con me. Poi, ho avuto la fortuna di essere seguito da un maestro eccezionale, Vittorio Terranova, che oggi ha 82 anni. Mi ha trasmesso il modo di cantare di Maria Carbone: un metodo sempre meno frequentato, ma io sono orgoglioso di continuare ad applicarlo e sono orgoglioso del mio lavoro”.
Quando non canta e non è in giro per il mondo, come passa il tempo libero?
“A Serena e a me piace molto cucinare, e siamo anche abbastanza bravini. Infatti io faccio un po’ la fisarmonica con il peso, ma vabbè… Siamo spesso a cena con gli amici, gli allievi dell’Accademia sono quasi sempre con noi, abbiamo creato un bellissimo gruppo. Poi una delle mie passioni è l’hi fi, che ha una sua connotazione legata alla musica, ma soprattutto all’impianto. Ascolto vinili e compact disc, mentre la musica ‘liquida’ non mi incuriosisce, non l’ho mai provata e nemmeno mi interessa. Ho grande passione per tutto quello che è artistico: i mobili antichi, i quadri, un certo tipo di ceramiche. Ogni tanto mi esce la passione per la fotografia, che poi puntualmente abbandono, ma poi riprendo”.
Lo sport?
“Sono un po’ ‘latitante’. Non sono tifoso e ho una certa avversione per il calcio, per quello che tira fuori dalle persone. Non sono mai riuscito a capirlo. Però se guardo il calcio in sé, allora mi piace. I miei figli giocano a tennis, a basket, a scherma, mi piace andarli a vedere”.
C’è qualcosa che vorrebbe fare, ma deve rinunciare per non rovinare la voce?
“No, non mi sono mai posto questo problema. Sono sempre andato in montagna, anche in inverno. Non mi metto più sciarpe, intanto se ti devi ammalare, ti ammali lo stesso. Io penso che meno paranoie ci si fa, meno ci si ammala e si sta male. Lo vedo anche con i ragazzi: io non sono mai stato per il sottile. Certo, cantare la mattina presto è un problema, però si canta, anche alle 9 o alle 10. Certo, nel pomeriggio si canta meglio, però le cose si possono fare. Ma non servono cose folli o riti di chissà quale tipo. Certo, se devi cantare, devi fare attenzione, ma bisogna cercare di fare una vita assolutamente normale. Se fai una vita normale, ci sono poi meno problemi a cantare anche in maniera più sincera”.
La sente la responsabilità di portare l’Italia in giro per il mondo?
“Io sì, ma spesso gli italiani non lo sanno, l’enorme tesoro che rappresenta l’opera. È una cosa che viene poco esaltata e considerata dall’Italia in generale. In Italia amiamo poco le nostre cose. L’opera lirica continua a vivere ma da noi non è esaltata come in tanti altri posti. Eppure, vai a Sidney e fanno le opere italiane, a Santiago del Cile fanno le opere italiane, in Germania fanno le opere italiane”.