Attualità - 18 gennaio 2024, 11:50

Lorenzo Tosa e il 'metodo Lucarelli': "Una sintesi di cosa non dovrebbe essere il giornalismo"

Il popolare giornalista genovese, pure lui finito tempo fa nel mirino della blogger, riflette dopo la morte della ristoratrice: "Lo scopo del nostro lavoro è quello di scoperchiare il potere, non il singolo cittadino colto in fallo, di smascherare le contraddizioni e le ipocrisie di chi ci governa e dei potenti, non una ristoratrice che, forse ingenuamente, ha creduto di potersi risollevare dal buio che sentiva circondarla"

Foto: Ansa

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“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” Prendiamo in prestito una delle citazioni più celebri del cinema italiano, tratta dalla pellicola Palombella Rossa di Nanni Moretti, per segnare un punto di partenza in una vicenda che non racconteremo ancora una volta (le pagine dei giornali, i blog, i social straripano di ricostruzioni e analisi di quanto accaduto a Giovanna Pedretti, la ristoratrice di Sant'Angelo Lodigiano, il cui corpo senza vita è stato ritrovato nelle acque del Lambro) ma che vogliamo e dobbiamo utilizzare per ricordare a noi stessi, e anche ai nostri lettori, che talvolta le parole che diciamo e che scriviamo possono avere delle enormi conseguenze. 

Lo sa bene Lorenzo Tosa, giornalista genovese, che proprio in queste ore ha deciso di dedicare una lunga riflessione sul ‘metodo Lucarelli’, da lui definito come una “centrifuga di attacchi personali mascherati da fatti, screenshot usati come arma, illazioni, frecciate quasi quotidiane, gogne mediatiche, clamorosa sproporzione di potere tra l’accusato e l’accusatore, che è la sintesi di tutto quello che NON è e non dovrebbe mai essere il giornalismo, il cui scopo è quello di scoperchiare il potere, non il singolo cittadino colto in fallo, di smascherare le contraddizioni e le ipocrisie di chi ci governa e dei potenti, non una ristoratrice che, forse ingenuamente, ha creduto di potersi risollevare dal buio che sentiva circondarla”.  

Qualche anno fa lo stesso Tosa è stato infatti ‘preso di mira’ dalla giornalista, con tanto di  dibattiti infuocati a suon di post e commenti, e proprio per questo ha deciso di condividere un pensiero ulteriore, oltre a quelli che inevitabilmente stanno affollando le teste e le bacheche di tutti noi. Il punto, secondo l’autore genovese, sono proprio la cura e l’attenzione nelle scelte: in quella del bersaglio di inchiesta, in quella delle parole da utilizzare, in quella di avere la capacità di distinguere se è necessario inchiodare qualcuno alle proprie responsabilità o semplicemente ridurre a una nota di cronaca un fatto accaduto.

“È dovuta morire una persona, un suicidio, per renderci conto di quanto le gogne siano violente, pericolose. Eppure, nello stesso identico modo, oggi stiamo finendo per trasformare l’accusa di una gogna social in una nuova gogna, questa volta con protagonisti diversi ma con lo stessa violenza e lo stesso accanimento” scrive Tosa, aprendo lo spiraglio a una nuova, e forse ancora più preoccupante riflessione: e se per quanto riguarda una recensione su un ristorante “un plauso, magari immeritato, non ha alcuna conseguenza reale, se non aumentarne il rating su Google (e a pensarci oggi, col senno di poi, stiamo parlando del nulla)”, “un attacco di quella portata può diventare una miccia in un pagliaio”. 

Le gogne, in questa vicenda, riguardano tutti i protagonisti: dal cliente omofobo, probabilmente inesistente stando alle ultime notizie, alla ristoratrice, da chi ha reso nota la vicenda e che ora viene additato come responsabile della tragedia.  

“Sarebbe comodo, persino liberatorio, dovrei essere felice nel vedere una persona che tanto male ha provato a farmi - a volte anche riuscendoci - finalmente in difficoltà e sottoposta allo stesso metodo di cui per anni è stata maestra, e invece non salirò su questo carro, troppo facile, auto-assolutorio, perché un suicidio è un fatto molto più complesso, profondo e multifattoriale di una gogna social (che pure ha un ruolo), perché ho una responsabilità anch’io non nell’epilogo (come non mi sento di darla a nessun altro) ma nel modo in cui tutta questa vicenda è stata trattata dall’inizio, perché i primi a gridare alla gogna sono le stesse maschere ipocrite di chi per anni ha utilizzato gogne social molto più violente contro migranti, liberi cittadini, avversari politici, minorenni e chi più ne ha più ne metta”. 

Un pensiero, uno in più, sembra non solo necessario ma anche dovuto, nel rispetto del prossimo, chiunque esso sia: “Se questa vicenda tragica ha un senso, è quello di indurre a una riflessione più ampia e complessa tutti noi, nessuno escluso, sul ruolo del giornalismo ma anche dei lettori che quel giornalismo avidamente consumano, sull’uso dei social, sulla violenza verbale che ferisce come quella fisica, sulla gentilezza diventata ormai una parola desueta e invece rivoluzionaria, sul tempo trascorso a cercare di colpire qualcuno, il prossimo, l’altro, invece di chiederci chi è, cosa pensa, quali le sue fragilità, la sua bellezza, le sue contraddizioni. Siamo tutti complici e tutti responsabili, con differenti gradi e a vario titolo. Tutti attori e fruitori di questo spettacolo che ha smesso da un pezzo di essere serio o divertente. Partiamo da qui, lavoriamo su noi stessi, senza dita puntate, solo col proposito sfacciato di cambiare noi stessi. Sarebbe un punto di partenza”.

Chiara Orsetti

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