“L’importante è tenere la giusta distanza dal mondo, perché se si avvicina troppo io non ce la faccio, perché non ci capiamo e si creano solo fatica e sofferenza. Quando me ne accorgo ne sento tutto il peso e mi viene da pensare ‘ecco sono sbagliato’. E allora devo concentrarmi e ricordarmi di sostituire la parola ‘sbagliato’ con diverso”. Non è così infrequente sentirsi “sbagliati” perché ci si sente in difficoltà a rapportarsi col prossimo e a compiere le normali azioni della vita quotidiana. Ma c’è chi questo disagio lo prova più d’altri e se ne incolpa. Soprattutto se non sa dare subito un nome, e quindi una spiegazione, a questa sensazione di “diversità” (chi poi non è “diverso” rispetto agli altri, che sono altrettanto “diversi”?).
A lungo è stato così anche per F. C., che solo a 45 anni ha ricevuto la diagnosi: Asperger, cioè Disturbo dello Spettro Autistico. Oggi ne ha 48, è laureato, lavora, ha un figlio adottivo (che vorrebbe essere intelligente e creativo come il padre), e fa conferenze per far sì che la propria esperienza di dolore possa essere d’aiuto agli altri. E intanto la sua vita è diventata una canzone, "Shutdown-Meltdown" (di cui la Voce di Genova ha già parlato), scritta da Ivano Malcotti e musicata da Stefano Cabrera e Flavia Barbacetto (nella foto di copertina), per il progetto “Me la canti Te la suono” (ideato da Simonetta Lumachi dell’Associazione Philos e Ivano Malcotti della Onlus Associazione Gruppo Città di Genova), nato per dare voce, letteralmente e metaforicamente, a chi è autistico, ma anche per fare emergere quelle che sono le peculiarità - che sono tante - di queste persone. E F.C. ne ha parecchie, tra cui un eloquio raro e schietto, un’intelligenza superiore alla media e un’invidiabile creatività, che lo porta a fare foto artistiche prestigio - ha anche un sito dedicato - che trasmettono le sue emozioni e la sua viscerale passione per l’astronomia (guarda la photogallery). Tanto che ci scherza sopra dicendo che pensa di avere il Dna a forma di galassia. E chi non vorrebbe un padre così pieno di curiosità, che conosce tutti i pianeti – va a Tiglieto a fotografarli col telescopio, “perché lì si vede a occhio nudo tutta la Costellazione di Andromeda” -, che si interessa di ogni cosa – “perché tutto quello che esiste è interessante solo per il fatto che esiste” –, che scrive racconti storici (L’inventore della matematica e Il sogno del Questore) e che pensa ai protoni come a una parte di sé e del Big Bang? Del resto siamo “Figli delle stelle” e polvere di stelle.
Che cosa significa vedere la propria vita trasposta nel testo di una canzone?
Mi sono proposto alcuni anni fa di fare il possibile perché la mia esperienza aiuti altri a vivere meglio e non si ripeta ciò che ho vissuto. Per lo più lo faccio attraverso le conferenze, che mi permettono di raggiungere gli addetti ai lavori, ma questa è stata l’occasione per raggiungere un pubblico più vasto. Per me comunicare è complesso e perciò mi piace usare ogni mezzo disponibile per trasmettere idee ed emozioni e la musica è uno strumento molto efficace, perché col suono può arrivare al cuore delle persone, mentre le parole veicolano un messaggio attraverso una storia, in questo caso la mia.
“Io non riesco a tacere, non son forte in empatia ma cerco un altro modo tra silenzi e ipocrisia”, dice la canzone "Shutdown-Meltdown". Cosa rappresentano la parola e il silenzio per lei?
Ho iniziato a parlare prestissimo, a 12 mesi, e la parola è uno strumento che conosco bene - sono anche laureato in Lettere -, ma i miei limiti non mi permettono di usarla pienamente: è come se io venissi da un altro pianeta e parlassi una lingua straniera, che non sarà mai mia. La parola è fatica, è stress. Il silenzio, invece, si riempie del mio mondo interiore, che per una persona autistica è quanto di più vero ci sia: è l’io più io che esista. Ho anche un udito molto fine e quando sono immerso nella natura, che è ciò che maggiormente si avvina al silenzio, c’è una miriade di suoni di fondo: sono tutte parole della natura, comprensibili e chiare, e per questo facili per me. Al contrario di quelle degli esseri umani, che continuano a inventare sistemi di comunicazione sempre più complessi, ma probabilmente perché continuano a vivere la comunicazione come un problema: è come se ci fosse un autismo di massa.
Nel testo della canzone e nelle conferenze fa riferimento al pensiero suicida. Perché ha iniziato a pensarci fin da bambino?
Quarant’anni fa non esistevano gli strumenti per capire un bambino con le mie caratteristiche, e anche se il signor Asperger aveva scritto un articolo nel 1944, nessuno se n’era accorto. In famiglia ero lo ‘strano’, e questo l’ho vissuto male: ero un bambino solo in casa propria. Non dondolarti, altrimenti si accorgono che sei strano, non parlare da solo altrimenti si accorgono che sei matto. Ecco cosa mi diceva mia madre, che era molto severa e che doveva correggere, anche con le botte, quello che secondo lei non era normale. Ho resistito finché a 8 anni ho iniziato a immaginare la mia morte quando andavo a dormire. Poi a 11 anni, a scuola, l’ho progettata per la prima volta - è quella di cui si parla nella canzone - pensando di buttarmi dalla finestra, perché la mia vita era insopportabile. Eppure non l’ho fatto e mi sono dato altri due anni per vedere come gli adulti si sarebbero comportati con me: dopo tutto avevo solo 11 anni. A 12 volevo tagliarmi le vene in refettorio, poi dopo i 14 anni ci sono stati altri progetti, fino a un tentativo a 16 anni: ero su un ponte pedonale, ma un conoscente, che deve aver intuito le mie intenzioni, è rimasto con me a parlare finché non siamo andati via. Il pensiero di volerlo fare c’è ancora. Combatto tutti i giorni con il mio essere ‘extraterrestre’. È una cosa che non andrà via: la diagnosi è sindrome di Asperger, ma anche depressione ricorrente. Il suicidio è come un negativo fotografico del mondo e della vita, ciò che è nero diventa bianco, e la fine è una speranza di sollievo da una fatica insostenibile. Si tratta di una lotta durissima, ma per fortuna ci sono persone in grado di capirmi e che vogliono sostenermi: questo fa la differenza nella mia vita. L’unico luogo in cui riesco a rilassarmi è qui, a Philos, dove mi sento quasi protetto. Perché l’importante è tenere la giusta distanza dal mondo, perché se si avvicina troppo io non ce la faccio, perché non ci capiamo e si creano solo fatica e sofferenza.
Cos’ha provato quando è arrivata la diagnosi?
Mi sono sentito sottosopra per alcuni giorni. Mi ritenevo una persona “originale”, ma sentirsi dire che si è diversi perché il cervello è diverso - lo sono le connessioni tra i neuroni- è un’altra cosa, per cui ho provato emozioni sia negative e che positive. Negative perché sono autistico e quindi diverso, ma positive perché è un’unica spiegazione a una miriade di aspetti della vita. E poi ho pensato che esser diversi non significa essere sbagliati, ma che, come mi dicono gli amici, sono come il dottor Spock di Star Trek! (ride n.d.r.). Essere consapevoli di questo è un bene prezioso, ma anche gli altri dovrebbero ricordarselo: bisogna incontrarsi a metà strada, e questo è il motore che mi ha spinto a fare le conferenze.
Sono cambiati i rapporti con i familiari dopo la diagnosi?
Sono più propensi a cercare d’aiutarmi, ma resto il figlio strano e malato, anche se l’Autismo non è una malattia, ma una condizione neurologica.
E il rapporto con suo figlio com’è?
Lui è stato adottato, quindi non si porta dietro il Dna dei genitori, ha un’intelligenza fuori del comune ed è più maturo dei suoi 13 anni. Inizialmente, quando gli ho spiegato cosa significhi essere autistici, è stato difficile, ma adesso la vive piuttosto bene: mi ha perfino chiesto se c’era un modo per diventarlo, per essere come il perché, che è creativo, intelligente e si informa su tutto. Gli ho risposto che lo è e che ha tutte le caratteristiche positive senza averne alcuna negativa dell’Asperger. Il nostro rapporto è molto bello. Dice che sono una “porta” perché può parlare di tutto con me, perché sarò sempre lì con una risposta.
A proposito di creatività: da dove nasce la passione per la fotografia?
Ho una sensibilità cromatica che è una volta e mezza quella normale, cioè vedo più sfumature, che in fotografia è comodo. Inoltre il cervello geometrizza ciò che vede: è un processo di cui le persone non sono coscienti, mentre io ne sono piuttosto consapevole e infatti, se l’inquadratura è perfetta, provo una sensazione fisica per cui è come se tutti i neuroni si allineassero in squadra. Inoltre, avendo problemi di comunicazione, uso ogni strumento disponibile, e la fotografia come forma d’arte è potente e mi permette di trasmettere emozioni forti. Per arrivare al mio obiettivo ho violato tutte le regole e mi son inventato un mio linguaggio per comunicare quello che voglio dire. L’ho fatto, per esempio col progetto sulla vita delle persone nelle città: come le metropoli disumanizzino gli esseri umani.
E la passione per l’astronomia?
Non ha un come né un perché: è nata letteralmente con me, dall’asilo, quando non sapevo ancora leggere eppure guardavo tutte le immagini di astronomia. Credo di avere il Dna a forma di galassia! (ride n.d.r.) Non posso immaginare la mia vita senza. Da adolescente dicevo o faccio l’astronomo o preferisco morire. L’Universo per me è comprensibile, non è misterioso né così distante da noi. I protoni del mio corpo sono nati durante il Big Bang e sono identici a quelli della galassia più distante, e vivranno altri cento miliardi di anni dopo di me, diventando pianeti e stelle. Noi siamo dentro all’Universo, solo che sopravvalutiamo la nostra piccola vita e temiamo il cosmo, che, invece, per me è casa.
Perché allora non ha fatto l’astronomo?
Ho iniziato a fare fisica, ma la vita mi ha dato una spallata. Da una parte il militare che non potevo rinviare e dall’altra continuavo a mettere in dubbio la mia esistenza: fisica è difficile, ma non impossibile, ma come fai a studiare con impegno se non sai se vivrai tra un mese? Lettere per me era una facoltà semplicissima e mi permetteva di coprire tanti interessi diversi, da storia a filosofia, perché tutto ciò che esiste è interessante per il semplice fatto di esistere. E mi ha riempito dei vuoti esistenziali e mi ha aiutato. Come la Comunità Sant’Egidio, che ho frequentato per vent’anni e che è stata una sorta di famiglia sostitutiva, che mi ha salvato la vita. Non so che fine avrei fatto senza di loro: riempivano la mia vita attraverso i servizi per chi stava male.