C’è la prima donna istruttrice subacquea del Mozambico, c’è la “Vaiana” di Tonga e una donna che ha salvato mille persone rapite e costrette al lavoro forzato in mare in Tailandia. Ma soprattutto c’è lei, Mariasole Bianco, che al convegno dell’Onu “Gender and the Ocean”, che si terrà il 7 Giugno a New York (in concomitanza con gli eventi per il World Oceans Day dell'8 Giugno), sarà la Master of Cerimony e moderatrice. Laureata all’Università di Genova in Biologia Marina, Mariasole è un “cervello di ritorno” – è tornata in Italia dall’Australia e vive a Genova -, famosa per la partecipazione come ospite fissa in qualità di esperta degli oceani nella trasmissione di Rai3 “Kilimangiaro” e co-fondatrice e presidente della onlus Worldrise (www.worldrise.org) che a Genova e in Liguria sta realizzando importanti progetti per la difesa dell’ambiente marino, come “Target Plastic Free”, “Batti5” e “Full Immersion AMP”. L’abbiamo intervistata prima della partenza per New York.
”Gender and the Ocean”: che cosa significa per lei moderare questo importante convegno dell’Onu?
Per me è una soddisfazione grandissima, anche per quello che è stato il mio percorso di vita, dal momento che sono voluta tornare in Italia per importare un po’ di esperienza e di sapere per quello che concerne la tutela e la valorizzazione dell’ambiente marino. Inoltre l’ho fatto iniziando con una piccola Onlus, per cui questo è un riconoscimento importantissimo al lavoro svolto negli ultimi 5 anni ed è un sogno che si realizza. Naturalmente, visto il tema, “Gender and the Ocean”, essere riconosciuta come donna in una piattaforma internazionale così importante che si occupa di conservazione marina è fonte di orgoglio, anche perché condividerò quel palco con persone che sono grandissima fonte di ispirazione e modelli è veramente un onore.
Il tema è indice del fatto che le donne hanno un ruolo di preminenza nel settore? O che sono più interessate degli uomini alla salvaguardia del mare?
Non farei tanto una distinzione di genere, perché la conservazione dell’ambiente marino, cioè del sistema che supporta la nostra stessa esistenza sulla Terra, è un obbligo che deve andare al di là del genere e della parità: deve essere un processo inclusivo, perché nessuno è escluso, né per sesso né per età. Infatti abbiamo visto che in questi ultimi tempi c’è un grandissimo movimento costituito da giovani che, in qualche modo, alzano la loro voce per il futuro del pianeta: sicuramente si tratta di un movimento di speranza, anche se dobbiamo renderci conto – ed è il nostro compito di persone che si occupano di conservazione dell’ambiente marino, indipendentemente dall’essere uomini o donne – che dobbiamo essere grandi comunicatori per fare campire quali sono i cambiamenti drammatici che l’Oceano sta affrontando in questi anni e che vanno a minare la capacità di garantire la nostra esistenza su questo pianeta. Possiamo cambiare rotta, abbiamo ancora un margine, ma è la nostra generazione, di chi abita sul pianeta ora, ad avere questa responsabilità di farlo, perché bisogna che tutti partecipino, dal momento che è nell’interesse di ognuno.
Quello della Biologia marina è un campo che vede impegnate molte donne?
Nell’affrontare il tema di genere sicuramente siamo in minoranza, anche a livello di ricerca, ma sono convinta che il trend sia significativamente cambiando, anche se è vero che, come penso in molti altri settori, il dominio è maschile.
Quali sono i “case history” di cui si parlerà? Tra questi ci sono esempi italiani, oltre a lei stessa, naturalmente?
Nella prima parte della giornata in cui sono Master of Ceremony e moderatrice, ci sarà una breve e significativa performance di un ragazzo delle Fiji e di una donna di Tahiti sul mito della creazione, tramandato in modi diverso in Polinesia e nelle isole del Pacifico: è la storia di un fratello e una sorella che, navigando, scoprono e creano il “mondo delle isole”. Ed è la donna ad avere il ruolo principale, perché è la sorella che ha la responsabilità di tessere la vela della barca, che rappresenta, come con la scrittura, il tramandare il sapere. Successivamente ci saranno esempi di “empowerment” femminile. Tra questi una ragazza del Mozambico che si è fatta da sé, diventando la prima donna istruttrice subacquea della sua nazione, e che, attraverso questa attività, ha costruito la propria carriera per la conservazione dell’Oceano in Mozambico. Un caso simile si trova alle Seychelles, dove una donna ha creato un’organizzazione per la realizzazione di progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nel suo Paese. L’organizzazione è gestita da giovani, ma vuole anche potenziare la componente femminile, anche in piattaforme di alto livello come quelle sulla negoziazione sul clima delle Nazioni Unite; lei è un’imprenditrice che nel campo ambientale sta cercando di aiutare anche gli altri. Poi c’è la storia di due donne dello Yucatan, in Messico, che hanno creato in un villaggio sperduto di pescatori il primo centro di educazione ambientale per i bambini, perché imparino l’importanza del preservare l’ecosistema marino: tramandano nelle nuove generazioni il sapere e la sensibilità ambientale. Inoltre c’è un’altra donna, soprannominata la Vaiana di Tonga, come la principessa Disney, che insegna l’arte di navigare in modo tradizionale, per esempio seguendo le stelle, oltre a saper pilotare le grandi imbarcazioni. A Tonga è stata anche la prima a dare inizio a un’attività ecoturistica per l’avvistamento delle balene. Infine ci sarà una testimonianza forte sul lavoro forzato negli Oceani: ancora migliaia di persone, infatti, vengono rapite nel sud-est asiatico, dai villaggi, e messe a lavorare illegalmente sui pescherecci; in Tailandia c’è una donna, che è la produttrice del documentario che vedremo, che ne ha liberati più di mille dopo essere stata lei stessa costretta al lavoro. E insieme a lei ci sarà un uomo rapito per diversi anni. Invece nel pomeriggio sarà l’italiana Francesca Santoro, responsabile Unesco di “Ocean literacy”, a parlare del ruolo della donna nella scienza.
Ormai tutti abbiamo visto la ”zuppa di plastica” che galleggia negli Oceani: siamo quasi al punto di non ritorno?
La soluzione non sono le nuove tecnologie o le aspirapolveri che prendono la plastica dal mare, ma l’azione di ognuno, agendo alla radice del nostro comportamento, perché il problema è il nostro abuso di plastica monouso – nata per durare migliaia di anni, ma che noi utilizziamo come usa e getta – e che per questo finisce in mare in quantità incredibile. Bisogna agire sull’educazione per avere una soluzione: sicuramente questo è il nostro primo obiettivo. Ma ci sono anche tante altre problematiche che stanno impattando sulla salute degli Oceani, dal riscaldamento, al fatto che perdono di ossigeno, e sta a noi, in qualche modo, essere la soluzione a questi problemi. Ancora abbiamo 10 anni circa per invertire la rotta, dopo di che molti cambiamenti saranno quasi irreversibili. L’Oceano è stato il nostro più grande alleato nella lotta ai cambiamenti climatici, che sono dovuti soprattutto all’emissione di gas serra che trattengono il calore. Pensiamo che dalla Rivoluzione industriale a oggi ha assorbito il 93% di quel calore in eccesso trattenuto nell’atmosfera; se l’Oceano non l’avesse fatto la temperatura della Terra sarebbe superiore di 36 gradi oggi. Però l’aumento della temperatura l’abbiamo registrato fino a oltre 2 mila di profondità… Una delle conseguenze è il fatto che la barriera corallina muoia, anche perché nell’acqua più calda l’ossigeno si discioglie di meno.
L’Italia sta facendo qualcosa di diverso o di più rispetto agli altri Paesi per la salvaguardia del mare?
Per quanto riguarda la plastica, invece, sta anticipando in modo significativo le vie che saranno imposte dalla direttiva dell’Unione Europea sulla plastica. Mentre per la conservazione dell’ambiente marino siamo un po’ indietro; le azioni che facciamo avvengono soprattutto attraverso le aree marine protette, che sono il migliore strumento che abbiamo per poter assicurare lo sviluppo sostenibile nell’ambiente marino, ma il problema è che se escludiamo Pelagos, che è il Santuario dei cetacei, le aree marine protette costituiscono meno dell’1% delle acque territoriali, che sono, quindi, troppo poche e pochissimo finanziate. Dobbiamo migliorare questa politica, perché sono uno strumento che serve a riportare il mare all’equilibrio che ha perso: bisogna andare al di là del concetto di sviluppo sostenibile e parlare di rigenerazione.
E poi ci sono i progetti realizzati a Genova e in Liguria con la tua Onlus Worldrise.
A Genova abbiamo realizzato diversi progetti, come “Target Plastic Free”, rete di locali del centro storico che si impegnano a non servire plastica monouso. Un’altra tematica di cui ci occupiamo è quella del pesce sostenibile: mi fa piacere dire che molti locali “plastic free” stanno seguendo anche le nostre linee guida per il pesce sostenibile, creando un circuito virtuoso di buone pratiche. In Liguria abbiamo il progetto “Batti5” per la sensibilizzazione delle nuove generazioni all’inquinamento di plastica in mare, con bambini che diventano ambasciatori del problema e primi portatori di soluzioni, e il progetto “Full immersion AMP” con le aree marine protette, che quest’anno si svolge a Portofino col Diving Evolution, in cui a fare da comunicatori sono i sub, per fornire le nozioni su un’area marina protetta, e per fare capire che proteggere il mare porta ai risultati. Lo facciamo in modo che anche uno studente dell’Università di Genova, e non solo, vada a lavorare alla pari nel diving per acquisire certificazioni ed esperienza anche nella divulgazione scientifica e il monitoraggio dell’ambiente bentonico, quello del fondale. L'associazione quindi unisce progetti di conservazione ambiento marino a quella che è la formazione dei futuri custodi del patrimonio marino.