Attualità - 21 marzo 2019, 13:59

Francesco Moser: “L’importante è… non partecipare”

Pomeriggio a Sestri Ponente, domani, per il più grande campione italiano di ciclismo. “Ho cercato sempre di vincere, anche nella vita”. Previsti commemorazione di Fausto Coppi, presentazione del libro-autobiografia e degustazione dei vini della Cantina Moser

Francesco Moser: “L’importante è… non partecipare”

"Ho vinto spesso, qualche volta ho perso, non ho mai partecipato”. Nel ciclismo come nella vita, Francesco Moser è un combattente. Un atleta, ma anche un uomo capace di superare tante sfide. Montagne da scalare, traguardi da raggiungere. La bicicletta, l’azienda vinicola, il raccontare storie: le sue grandi passioni.

Ed è bello che tutto questo, domani (venerdì 22 marzo), si riassuma in un unico pomeriggio, proprio qui, dalle nostre parti. Francesco Moser sarà a Sestri Ponente, in una serie di eventi organizzati da Giglio Bagnara, in collaborazione con l’Enoteca Squillari e il Mondadori Bookstore.

Alle 16, il più grande campione italiano di tutti i tempi, ricorderà Fausto Coppi nel centenario dalla nascita, proprio nella strada dedicata al Campionissimo, a fianco alla parrocchia di Nostra Signora Assunta, dove Fausto visse per qualche anno, avendo sposato nel 1945 la sestrese Bruna Ciampolini. Sarà presente il presidente del Municipio VI Medio Ponente, Mario Bianchi.

Quindi, alle 17,30, al Mondadori Bookstore di via Sestri, presentazione e firmacopie del libro ‘Ho osato vincere’, scritto a quattro mani con Davide Mosca ed edito da Mondadori. Infine, alle 18,30, degustazione dei vini della Cantina Moser, l’attività di famiglia, che ha sede a Trento.

Sarà un bel modo per conoscere una leggenda dello sport italiano: Francesco Moser, infatti, è il nostro connazionale che vanta il maggior numero di vittorie sulle due ruote (273 in tutto), oltre che terzo assoluto a livello mondiale, dopo Eddy Merckx e Rik Van Looy. Non solo il Giro d’Italia (1984), ma anche le ‘classiche’ più importanti, come la Milano-Sanremo, la Freccia Vallone, il Giro di Lombardia, la Parigi-Roubaix. Fu inoltre campione del mondo su strada e, nell’inseguimento su pista, nel 1984 a Città del Messico stabilì il record dell’ora, ottenendo poi il primato anche nel 1986 a Milano e nel 1988 a Stoccarda.

 

Che cosa ha rappresentato per lei Fausto Coppi?

“Io sono nato nel 1951, quindi ai tempi di Coppi ero proprio piccolo. Non l’ho mai conosciuto personalmente. Certo, ne ho sempre sentito parlare. È stata una leggenda del ciclismo. Da bambino sentivo sempre della sua grande rivalità con Bartali. Ecco, Bartali invece l’ho conosciuto, anche perché era stato il direttore sportivo di mio fratello. Anche per questo, in casa, siamo sempre stati dei ‘bartaliani’. Però per Coppi massimo rispetto: ha fatto delle cose veramente grandissime. Veniva giù a Genova ad allenarsi dal basso Piemonte, anche lui, come me, ha avuto una gioventù faticosa, e poi è diventato grande ai pedali”.

 

Era un ciclismo d’altri tempi. Oggi i corridori sono quasi uomini-macchina. Le piace questo ciclismo?

“È un discorso di generazioni. Magari ai giovani piace di più così: con le dirette in televisione, i microfoni, gli auricolari, i contachilometri, i cardiofrequenzimetri, i misuratori del consumo energetico, le diete, le statistiche, le analisi eccetera eccetera. La scienza applicata al ciclismo, insomma, ma anche nello sport più in generale, visto che anche le altre discipline, come il calcio, non sono certo meno tecnologiche. Ai ‘vecchi’ come me, indubbiamente, piace meno. Allora c’era solo il grande gesto sportivo, c’era il senso dell’impresa. C’erano poesia ed epica. Il sudore e la fatica, però, specialmente sulle grandi salite, vi posso garantire che sono rimasti esattamente gli stessi”.

 

Anche produrre vino è cambiato così tanto? Anche in cantina è entrata la scienza?

“È un po’ lo stesso discorso. Ci sono varietà di uve nuove, nuove tecniche per la produzione. Ma la fatica e l’impegno sono identici. Certo, io mi ricordo di quand’ero bambino: mio padre faceva questo mestiere, si andava dentro i tini di legno a piedi scalzi e si schiacciava l’uva. È qui che ho fatto la mia palestra, che è iniziata la mia preparazione. Poi ho cominciato a fare le gare solo a diciotto anni. E, alla fine, dopo aver vinto così tanto, in campagna ci sono ritornato, perché il primo amore è veramente quello che non si scorda mai”.

 

Ma dà più soddisfazione una buona annata per il vino o una vittoria sulla bicicletta?

“Sicuramente una vittoria in bicicletta. Il vino lo possono fare tutti, o quasi. Vincere una corsa in bicicletta non credo proprio”.

 

Lei va ancora in bici?

“Certamente, anche se non con la stessa frequenza di una volta. Inizio ad avere i miei anni… Faccio tra i cinque e i seimila chilometri all’anno. Comunque mi tengo in forma”.

 

Il Trentino rimane la sua terra. Alla fine tutto inizia e finisce qui.

“Pensi che a Palù di Giovo, dove sono nato, possiamo vantare ben quattro maglie rosa. Credo sia un fatto più unico che raro: oltre a me, ci sono i miei fratelli Aldo ed Enzo, e Gilberto Simoni, con il quale sono due volte parente. Palù, come dico nel libro, è rimasto il perno attorno al quale ha ruotato tutta la mia vita, benché nel corso degli anni il raggio della ruota si sia allungato sino ai confini della terra: dal Venezuela, dove ho conquistato la maglia iridata, al Giappone, dove sono stato il primo ciclista italiano a gareggiare. Ma non importa fin dove sono arrivato. Sono sempre tornato qui, dopo ogni vittoria come dopo ogni sconfitta. Perché nessuno può restare se stesso, senza le proprie radici”.

 

Che ricordi ha di Genova?

“Bellissimi. È una città dove ho vinto tanto. Diversi Giri dell’Appennino, ad esempio. Ma anche un bel cronoprologo del Giro d’Italia. Era l’anno 1980, si arrivava di fronte al porto. Poi, la Liguria è famosa per la Milano-Sanremo. Il Turchino, ogni volta, era una vera sfida, anche per i miei avversari più agguerriti”.

Alberto Bruzzone

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