Innovazione - 20 dicembre 2018, 16:59

IIT e Ospedale Galliera studiano le prime nanomedicine per la cura dell’ictus

Lo studio preclinico è stato pubblicato sulla rivista internazionale ACS Nano e ha l’obiettivo di sviluppare farmaci intelligenti contro l’ictus

IIT e Ospedale Galliera studiano le prime nanomedicine per la cura dell’ictus

Una collaborazione interdisciplinare tra l’IIT-Istituto Italiano di Tecnologia e l’Ospedale Galliera ha portato alla realizzazione di nuove nanomedicine per la cura e prevenzione dell’ictus. Si tratta di nanoparticelle in grado di circolare nel sistema sanguigno come delle micro-navicelle, di individuare coaguli di sangue pericolosi, e di sciogliergli, curando possibili trombi cerebrali, e quindi l’ictus. Lo studio è preclinico e la sua sperimentazione sull’uomo richiederà altri anni e finanziamenti, ma è un primo passo promettente per lo sviluppo di un farmaco intelligente e di facile utilizzo anche durante le prime fasi del soccorso.

L’attività di ricerca è stata condotta dal gruppo di Paolo Decuzzi del Laboratorio di Nanotecnologia per la Medicina di Precisione dell’IIT a Genova, in collaborazione con il dr. Massimo Del Sette, direttore della S.C. Neurologia presso l’Ospedale Galliera di Genova, e il gruppo del Dr. Didier Letourneur del CNRS-INSERM di Parigi. All’attività di ricerca hanno partecipato anche dottorandi dell’Università di Genova e della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Si tratta di una ricerca multidisciplinare che ha coinvolto esperti nel campo della nanomedicina, delle neuroscienze e neurologia, biologia ed ingegneria cardiovascolare. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica internazionale ACS Nano.

La trombosi è una malattia  dovuta all’occlusione, parziale o totale, di un vaso sanguigno da parte di un coagulo di sangue. Una delle sue manifestazioni più gravi è l’ictus ischemico, che si verifica quando l’occlusione vasale, a livello dei vasi cerebrali, conduce alla ridotta perfusione sanguigna al cervello, determinando la progressiva morte delle cellule neuronali. L’ictus può, quindi, avere conseguenze dannose sui pazienti, generando disabilità, o anche, nei casi più gravi, decesso. In generale, due terzi degli ictus si verificano in persone di oltre 65 anni di età, con una maggiore percentuale nelle donne rispetto agli uomini. Nella regione Liguria si contano circa 4000 ictus all’anno (11 al giorno), ed in tutta Italia  circa 150 mila nuovi casi all’anno.  Le conseguenze, spesso devastanti, di questa malattia sono rappresentate da emiparesi (impossibilità a muovere metà del corpo, afasia (impossibilità o difficoltà a comunicare tramite il linguaggio verbale), disturbi della vista, dell’equilibrio, della coordinazione motoria.

Ad oggi, l’unico farmaco utilizzato in clinica per il trattamento dell’ictus è l’attivatore del plasminogeno tissutale, detto tPA, che ha l’effetto di rompere il trombo (trombolisi). Purtroppo, questo farmaco può essere usato solo nel  10% dei pazienti affetti da ictus, per difficoltà nella selezione dei pazienti e  possibili effetti collaterali, primo fra tutti l’emorragia cerebrale o in altre sedi corporee.

Le nanoparticelle realizzate dai ricercatori di IIT hanno una caratteristica forma a disco che ricorda quella dei globuli rossi. Questi dischetti sono in grado di “caricare” su di loro stesse il farmaco trombolitico , di viaggiare nel sistema cardiovascolare lasciandosi trasportare dal flusso sanguigno, fino a raggiungere il coagulo e rilasciare solo lì il farmaco. Dagli studi preclinici condotti presso l’IIT di Genova, i vantaggi delle nanoparticelle discoidali rispetto al farmaco convenzionale sono: la maggiore efficacia nel disciogliere più rapidamente il trombo in modo da facilitare la ricanalizzazione dei vasi occlusi; la minore tossicità in modo da permettere l’uso di questa terapia trombolitica su un maggior numero di pazienti con probabili minori rischi emorragici senza rischi; lamaggiore permanenza nel sangue, in modo da potere rimuovere trombi secondari e più piccoli.

I ricercatori hanno analizzato le caratteristiche delle nanoparticelle, la loro stabilità, tossicità e interazione con le cellule del corpo. In seguito, hanno studiato la capacità di trasporto del farmaco da parte delle nanoparticelle, ovvero quanto farmaco poteva essere veicolato in base alla dose minima richiesta dalla terapia e se il farmaco fosse ancora stabile e funzionante dopo il legame con le nanoparticelle. Per fare questo, i ricercatori hanno ricreato in vitro esperimenti che mimassero le condizioni della patologia. In particolare, attraverso un chip microfluidico hanno ricreato le condizioni reali in cui le nanoparticelle si sarebbero trovate all’interno del circolo sanguigno. Nel chip microfluidico i fluidi possono viaggiare alla stessa velocità alla quale viaggerebbero in vivo e all’interno di canali piccoli tanto quanto i canali sanguigni umani. All’interno di questi chip è stato formato un coagulo, che è diventato il target per le nanoparticelle cariche di farmaco. Confrontando l’effetto del farmaco con e senza nanoparticelle, i ricercatori hanno scoperto che le nanonavicelle erano più veloci a sciogliere i coaguli rispetto al farmaco libero. Inoltre, hanno osservato che le particelle sono grandi abbastanza da rimanere intrappolate a livello del coagulo, potendo  così rilasciare il farmaco più lentamente nel tempo. Al contrario, il farmaco libero è troppo piccolo, sfugge e viene facilmente degradato prima che possa agire dove è necessario.

Il gruppo di ricerca ha quindi testato le nanoparticelle in modelli preclinici, dimostrando ulteriormente l’efficacia delle nanoparticelle nel sciogliere i coaguli, anche con concentrazioni di farmaco più basse rispetto alle dosi convenzionali.

I risultati, quindi, hanno dimostrato non solo che le particelle funzionano meglio del farmaco libero, poiché  si legano al coagulo e non disperdono il farmaco in altre parti dell’organismo, ma anche che con dosi inferiori a quelle attualmente usate in clinica si potrebbero ottenere risultati simili riducendo tutti gli effetti collaterali del farmaco.

L’obiettivo ultimo della ricerca, che continuerà nei prossimi anni, è realizzare una particella che possa essere iniettata direttamente in ambulanza in pazienti con sospetto ictus. In questo modo sarà possibile ridurre i tempi di intervento, diminuire il numero di pazienti affetti da disabilità e ridurre i costi sanitari  e sociali associati con la gestione di pazienti con disabilità permanenti anche gravi.

Redazione

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