Guardare a un futuro che non c’è.
È una cosa divertente, quella che mi è successa stamattina. Mi sono alzata all'alba, ho affrontato l'epopea del traffico cittadino fra treni in ritardo e autobus che si muovono a passo d'uomo (ricordiamo Genova come la città paralizzata che si è completamente fermata a causa del crollo del ponte Morandi) per recarmi al tanto atteso colloquio di lavoro.
Chiariamoci, atteso perché mandi cv come se fossero il tuo unico credo, e le risposte arrivano talmente tirate e sporadiche che quando il telefono suona sei addirittura incredula che ti abbiano selezionato per un lavoro. Altra parentesi, enfatizzo sul ‘selezionato’ perché poi dal colloquio all'essere assunti c'è un abisso.
Ma torniamo a noi. Mi presento al portone della ditta e non so cosa aspettarmi, salgo e vengo accolta in un ufficio dove non vola una mosca e si percepisce l'aria che tira. Mi chiedono chi aspetto.
Chi aspetto? Un lavoro vero, signorina! No, non posso dirle così, ma non ho nemmeno un nome, perché ho parlato al telefono con qualcuno che, se si è identificato, lo ha fatto sommariamente, svogliato e impigrito, quasi scazzato nel dover scrutinare possibili tirocinanti. Partiamo bene.
Attendo, e quando finalmente mi ricevono in sala meeting, lo scazzo sulla faccia del giovane è lampante. È più interessato a sapere dove vivo - perché lì vicino ci abita un suo caro zio - che a sapere cosa ho fatto nella mia vita. Ironizza pure sul fatto che ho studiato moltissimo ma applicato poi poco (mi sfotti pure? Se solo sapessi come mi sono fatta in quattro a servire la cena a tipi come te negli anni, mai un week-end libero e gli amici che piano piano ti isolano perché non ci sei mai. Ti dicono pure che dovresti lavorare meno...).
Insomma, alla fine mi dice, quasi imbarazzato del fatto che dia il mio consenso, che si tratta di un tirocinio di mesi 6+6 con un rimborso spese. Per chi non lo sapesse, il rimborso spese in Liguria è una cifra irrisoria che si aggira attorno ai 300 euro mensili. Più buoni pasto, e te lo dicono come ad alleviarti le pene dell'inferno, come se con quei 200 euro in più al mese potessi così vivere una vita dignitosa.
La verità è che per un anno potresti essere un'ottima schiava, e magari poi ti lasciano pure a casa perché di giovani laureati disperati è pieno il mondo.
Ovviamente accetto, perché sono giovane, forse un po' stupida ma ormai disillusa che dopo sei anni di studi, lauree e master troverò il lavoro che fa per me, retribuito nel modo appropriato. Non sono una che si arrende, e invece che gettare la spugna chiamo l'agenzia che mi ha indirizzata a questa ditta marittima, chiedendo se ci sono altri lavori, altri stage, perché quello in ***** offre uno stipen... ops, rimborso, al minimo della soglia di povertà.
Dove credevo di trovare un po' di forza e coraggio per andare avanti nella ricerca, trovo una impiegata che ride alla mia affermazione, apostrofandomi così “tesoro, la legge lo permette e loro ne approfittano”.
Butto giù il telefono e mi accorgo che sto piangendo come una cretina. Una cretina disillusa che sa che non lavorerà probabilmente ancora per un po'. Una cretina che si mangia il fegato dalla rabbia ogni volta che legge gente che scrive “i giovani portano il loro know-how all'estero perché non gli interessa dell'Italia, perché preferiscono scappare”.
Ad oggi, perdo definitivamente la stima, la speranza e la voglia di credere che l'Italia possa essere un Paese migliore. Si tratta di un Paese che a 27 anni mi porta a chiedermi “perché ho studiato? Valeva la pena farmi una cultura? Investire fatica, soldi e i miei anni migliori nelle biblioteche e negli Atenei italiani?”.
Vado a casa abbattuta e la giornata non migliora, perché il panorama dal treno mi propone il moncone del Ponte Morandi. Il futuro non mi ha mai fatto così paura.