Prosegue questo mercoledì ‘I mestieri di una volta’, un ciclo di servizi de ‘La Voce di Genova’ dedicato a chi ancora svolge quei mestieri antichi, con il medesimo impegno e la medesima passione. Ogni settimana vi racconteremo storie di ingegno, di orgogliosa resistenza, di rinascita, di ritorni alla moda: storie fatte di mani sapienti, di teste pensanti, di tantissimo amore e attaccamento alle proprie radici. Buona lettura!
Da una parte c’è via XXV Aprile, un disegno ottocentesco che ha contribuito a cambiare l’assetto urbanistico di Genova. Dall’altra via Luccoli, il ‘bosco sacro’ che racconta di una città antica, circoscritta dalle mura, antenata della Superba capace di dominare commerci e scambi.
Tra queste due parentesi di tempo, persa in un incrocio di vicoli troppo poco conosciuto, si trova una bottega la cui parola chiave è ‘intreccio’.
In questo laboratorio, tra paglia palustre e rafia, si muove Stefano Cavalieri, impagliatore da oltre trent’anni e testimone di un mestiere che unisce artigianato, storia dell’arte e pazienza antica.
Un destino, il suo, scritto forse nei geni, come lui stesso racconta: “Mio nonno, anche lui Stefano Cavalieri, fondò la ditta numero 11 della Camera di Commercio di Genova, vendeva mobili in giunco, sedie, cesti…”.
Così, mentre compie gesti che raccontano una memoria antica, Cavalieri si tuffa nel suo passato “Ero un brillante studente di chimica industriale, ma dopo il militare mi sono disamorato della materia. Così sono tornato in ditta e lì ho incontrato il signor Cervini, un impagliatore veneto che chiamavo maestro. Da lui ho imparato il mestiere”. Da quel momento, Stefano non ha più smesso.
Dalla sua prima bottega di appena quindici metri quadrati in piazza Polaioli, al laboratorio attuale aperto nel 1992, il percorso è stato un crescendo di esperienza e riconoscimenti. Oggi le sue mani restaurano sedie che arrivano da tutta Europa e il suo nome circola anche nel mondo del design.
“Ho inventato un’impagliatura per un’architetta genovese. La sua sedia è finita in una galleria d’arte a Bruxelles. Era più un oggetto d’arte che funzionale”, racconta mostrando le foto del procedimento, una testimonianza di ingegno e conoscenza.
“Impagliatura è un termine che racchiude un sacco di cose: la sedia viennese, le rustiche, le chiavarine...”, spiega Cavalieri. Un’arte complessa, “trasversale tra restauro, arte contadina e decoro”, che richiede tempo, studio e occhio attento.
Nel suo laboratorio si incontrano stili e storie: dal modernissimo design italiano, come la Plia di Piretti o le sedie di Marcel Breuer, fino ai capolavori storici: “Mi è capitato di restaurare sedie del Seicento per antiquari, pezzi in stile Luigi XV, Luigi XVI, ovaline genovesi…”, racconta mentre indica, tra le numerose sedie, sgabelli e divanetti, gli intrecci e le lavorazioni disseminate qua e la.
Il lavoro è tanto e la stanchezza non manca di farsi sentire: “Ho 68 anni, sono in pensione ma continuo a lavorare, altrimenti mi abbruttisco. Una volta facevo dodici ore, oggi dopo otto sono bollito”
Eppure la passione resta intatta. Anche perché il senso di questo mestiere va oltre l’oggetto in sé e in un’epoca di consumismo, l’arte del riparare sembra avere un che di sovversivo: “la gente tiene alle proprie cose e sa averne cura”.
Come ogni custode di un sapere antico, anche Stefano si è chiesto se e come tramandare il mestiere. “Ho insegnato a diverse persone. C'è un ragazzo di Torino, figlio di impagliatori, una ragazza veneta., anche lei figlia di impagliatori” e in questa sorta di programma di studio e formazione che tanto ricorda i viaggi degli artisti in Italia e in Europa, la volontà di resistere appare chiara: “Io spero solo di continuare a stare bene e di poter lavorare ancora un po’. Se i clienti hanno pazienza, io volentieri”.
Tra le mani di Stefano passano memorie familiari, eredità dimenticate, pezzi unici e sedie che tornano a vivere, forme d’arte che ‘intrecciano’ il sapere antico e la coscienza moderna dando vita a trame che sanno di cura e dedizione.