Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureato in Scienze della Comunicazione. L'ospite di oggi è Alessandro Ceppellini, ex numero 873 al mondo di tennis e protagonista nella squadra di Serie A1 del Park Tennis Genova.
Alessandro Ceppellini, come ti sei avvicinato al tennis?
“Quasi da subito, vengo da una famiglia di tennisti quindi è stato naturale. Mio papà è stato un B2, ma anche mia mamma e mio nonno giocavano. Sono cresciuto al Park, ho visto foto di me lì sin da quando avevo due anni. Anche se poi ho iniziato a fare tornei relativamente tardi, a undici anni, ero molto appassionato nonostante non vincessi spesso. Mio papà mi prendeva in giro perché nei tornei dopo aver perso magari 6-1 6-1 lo chiamavo contentissimo e gli chiedevo di iscrivermi al prossimo”.
Quando hai capito di avere delle qualità importanti?
“A quindici anni ero ancora un 4.1, quindi ad un livello basso per quell’età. Da lì in poi però mi sono sbloccato e ho cominciato a salire gradualmente, fino a giocare i Futures e ad essere 800 del mondo”.
C’era qualcuno a cui ti ispiravi da piccolo?
“Non cercavo di diventare come qualcuno in particolare, anche se Fabio Fognini, da ligure e appartenente al mio stesso circolo, è stato un grande punto di riferimento. Anche perché dai 13 ai 17 anni mi sono allenato con Leonardo Caperchi, colui che ha portato Fognini dagli Under al professionismo”.
Ormai sei una colonna della squadra di Serie A1 del Park Tennis Club. Che rapporto hai con il circolo?
“Ormai sono quasi dieci anni che sono in squadra: è molto bello, si è formato un bel gruppo e per me giocare la A1 per il Park ha un sapore speciale. Ci sono praticamente nato, conosco tutti i soci e da ragazzino passavo lì le giornate con gli amici. Il Park non è solo un circolo, è la mia seconda casa”.
Nello sport individuale per eccellenza come il tennis, come vivi l’aspetto della gara a squadre?
“Le gare a squadre sono completamente diverse, anche se a parte i doppi ognuno gioca la sua partita. In campo sei comunque da solo, giochi sì per la squadra ma anche per te stesso. Però condividere per tre mesi l’anno i sabati e le domeniche con le stesse persone che non vedi per un anno è bellissimo. Oltre all’aspetto di squadra, però, è proprio l’individualità ciò che amo del tennis: se vinci è merito tuo, se perdi è colpa tua. E se perdi, la settimana dopo puoi giocare un altro torneo e rimetterti in gioco”.
Il Park ha schierato negli anni giocatori di livello assoluto, come lo stesso Fognini, Bolelli o un giovane Musetti. Com’è giocare con loro?
“Musetti lo conosco da quando ha tredici anni, l’ho visto crescere, è con noi da quando addirittura giocava la Serie B. Però era molto giovane, con Bolelli e Fognini era diverso, sono cresciuto guardandoli in televisione quindi poterci giocare assieme è stata un’emozione straordinaria. Poi ho giocato anche con Andujar, oppure contro Lorenzi, Volandri, Berrettini o Baez, insomma, un po’ di giocatori li ho incontrati”.
E hai incontrato anche un certo Jannik Sinner. Ora che Jannik è il numero uno al mondo, cosa pensi di quella semifinale a Santa Caterina nel 2018?
“Prima di incontrare Sinner avevo battuto Bellucci, due giocatori che oggi si sfidano nel circuito maggiore. Ai tempi Jannik aveva 17 anni, se avessi saputo che sarebbe diventato il numero uno al mondo me la sarei goduta di più. Per me era la prima semifinale in un torneo ITF, quindi pensavo più a quello. In quella partita Sinner non mi impressionò particolarmente: era un ragazzo che giocava bene, determinato, preciso, ordinato, ma non sono uscito dal campo pensando che sarebbe diventato un grandissimo. Poi tre mesi dopo ha vinto un Challenger, sei mesi dopo ha fatto il secondo turno a Roma ed è entrato nei primi cento: ha avuto una crescita esponenziale in pochissimo tempo. Quella rimane però una partita che mi ricorderò per tutta la vita. Certo, mi sarebbe piaciuto vincerla, invece persi 7-6 4-6 4-6: pochi giorni fa ho riguardato il live score ed ho avuto palla break per andare a servire per il match…”
Quest’anno il Park si è fermato in semifinale. Cosa è mancato per fare il passo decisivo verso la finale?
“All’andata dopo i singoli eravamo avanti 3-1 e in entrambi i doppi sopra di un set. In quel momento lì è girata la nostra semifinale. Una partita di tennis, soprattutto in doppio, si gioca su due o tre punti quindi un minimo tentennamento può costare caro. In più, sia Viola che Copil hanno avuto qualche problema fisico, quindi l’insieme di questi fattori ci è costato la semifinale. Però è comunque un risultato che ci eravamo prefissati di ottenere, per come è stata costruita la squadra una semifinale è un buon risultato. Ovviamente qualificarsi per la finale o vincerla sarebbe stato il massimo”.
Tornando alla tua carriera, a un certo punto decidi di mollare la strada del professionismo. Come è maturata questa scelta?
“Sebbene dentro di me il tennis fosse la priorità, ho sempre avuto altri impegni. Alle superiori frequentavo il King, un liceo scientifico, poi ho iniziato l’università e dopo sei anni di Odontoiatria oggi faccio il dentista insieme a mio papà e mia sorella. Dal punto di vista sportivo, dal 2019 i tornei Futures hanno smesso di dare punti ATP e così ho perso quasi tutti quelli che avevo accumulato. In più il Covid mi ha ulteriormente frenato, così ho deciso di puntare sugli ultimi anni di università giocando solo tornei Open, dove spendi un decimo e guadagni il doppio”.
Hai deciso quindi di sfruttare il tuo “piano b” con la Laurea in Odontoiatria. La tua storia insegna come sia importante avere un cuscinetto, specie se si vuole intraprendere una carriera così difficile come quella del tennista.
“In Italia diventare un tennista è complicatissimo, non ho avuto nessun aiuto, nemmeno dal punto di vista scolastico. Al liceo non potevo perdere neanche un giorno: uscivo di scuola alle due e dieci, il maestro mi passava a prendere e alle due e venticinque ero già in campo. E lì rimanevo fino alle cinque e mezza. Poi tornavo a casa e studiavo, e magari dopo cena facevo un’ora e mezza di partita al Park. È stata molto dura”.
In Italia, soprattutto, conciliare sport ad alto livello e studio è molto difficile…
“Fare le due cose al 100% è impossibile, per questo poi ho deciso di puntare ad altro. Però, prima di farlo, ho fatto tanti salti mortali. Una volta durante un Future a Sassuolosupero le qualificazioni, vinco il primo turno 7-6 al terzo set, il giorno dopo torno a Genova per dare un esame e l’indomani torno a Sassuolo per vincere e fare i quarti per la prima volta. Oppure un anno sono stato tre settimane in Sardegna, arrivo a Genova alle nove del mattino con il traghetto, mi precipito in università per dare un esame e poi la sera parto in aereo da Milano per andare a fare un torneo al Cairo”.
E ora il lavoro da dentista.
“La strada dell’odontoiatria per me c’è sempre stata grazie a mio papà. Oggi sono felice così, mi piace quello che faccio. Avere un piano b mi ha tolto tante pressioni: sapevo che, nel caso non avessi raggiunto i miei obiettivi, avrei avuto comunque un’altra strada. In questo modo non ho mai vissuto il tennis come uno stress, giocavo perché mi piaceva. E mi piace ancora oggi: quando gioco un Open e magari vinco una partita lottata, l’adrenalina non mi fa chiudere occhio fino alle tre di notte…”
C’è qualcosa che il tennis ti ha insegnato e che ti porterai dietro nella vita e nel lavoro?
“Etica del lavoro, organizzazione e responsabilità. Anche quando studiavo, grazie al tennis avevo un metodo che mi permetteva di ottimizzare i tempi e organizzarmi al meglio. Tutto questo nel lavoro aiuta, me lo diceva sempre anche mio papà. Il tennis, essendo uno sport meritocratico al massimo, ti aiuta ad avere delle responsabilità: sai che tutto dipende da te e da nessun altro”.