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Attualità | 09 novembre 2024, 08:00

Lo Sport che amiamo - Vittorio Podestà: "Così grazie all'handbike ho trovato la mia seconda vita"

Il pluricampione mondiale e campione olimpico racconta lo speciale legame con Alex Zanardi: "Lo conobbi in Autogrill perché era rimasto stupito dalla mia particolare bicicletta. Da lì è iniziato tutto"

Lo Sport che amiamo - Vittorio Podestà: "Così grazie all'handbike ho trovato la mia seconda vita"

Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureato in Scienze della Comunicazione. L'ospite di oggi è Vittorio Podestà, chiavarese, pluricampione mondiale e campione olimpico di handbike con sei medaglie complessive, di cui due ori a Rio 2016.

Vittorio Podestà, lei è stato il primo handbiker a portare dei successi in Italia. Anche grazie a lei la Nazionale italiana è stata la più forte al mondo: oggi, guardando indietro a tutto quello che è stato fatto, che effetto fa?
“Ho cominciato nel 2005, e la prima gara internazionale di una certa importanza è stato il Mondiale del 2007 in cui ho subito portato a casa una vittoria. Non mi sarei mai aspettato di vincere quel titolo in maniera così precoce. Quello è stato primo Mondiale per l’Italia, dato che non siamo mai stati una nazione forte in questa disciplina. I miei successi sono serviti a stabilire un livello, e hanno trascinato altri atleti italiani. Sin da subito ho deciso di confrontarmi ad un livello internazionale, perché era fuori dall’Italia che gareggiavano i migliori. All’inizio lo facevo in una dimensione individuale, poi con il tempo si è costruito un gruppo che, dal 2012 al 2016, ha costituito la Nazionale più forte al mondo. Eguagliare o superare quei successi oggi sembra molto difficile, ma mai dire mai. In questo momento, la ‘nuova Italia’ è la Francia, mentre noi siamo un po’ arretrati, anche perché i vecchi tecnici non hanno attuato un ricambio dopo che noi ‘vecchi’ ci siamo ritirati. Però ci sono comunque dei buoni segnali, e vedere che una Nazionale vince delle medaglie nella specialità alla quale ho contribuito a dare il via è una grande fonte di soddisfazione. La Nazionale oggi paga la perdita, come atleta, di Alex Zanardi, un personaggio trascinante, e io stesso dopo il suo incidente ho deciso di smettere. Era in programma la partecipazione almeno alle Olimpiadi di Tokyo, ma l’incidente di Alex è stato fonte di grande sconforto. Sentivo la mancanza di un compagno di squadra con il quale avevo costruito tanto, in primis la squadra della Nazionale italiana”. 

 Lei ha iniziato dopo l’incidente del 2002. L’handibike non solo le ha permesso di superare un momento di grande difficoltà, ma le ha dato la possibilità di vivere quasi una nuova vita…
“Assolutamente. Prima dell’incidente facevo l’ingegnere, mai avrei pensato di intraprendere la carriera da atleta a quasi trent’anni. Anche solo per questo è una seconda vita. Ho trovato uno sport che mi ha affascinato tantissimo, non solo perché il ciclismo è sempre stato il mio sport preferito, ma perché nell’handbike ho visto qualcosa di grezzo da poter migliorare. Da ingegnere, nel mezzo ho visto qualcosa di perfettibile e i miei successi derivano anche da questo, da esperimenti, idee e progettazioni per migliorare le handbike. Lo sport mi ripagava a 360°: sia dal punto di vista dei risultati che da quello ingegneristico. Tante volte capitava che non vincessi una gara e l’atleta che mi aveva battuto avesse qualcosa di mio nel suo mezzo. Per utilizzare termini della Formula 1, ho fatto il pilota, il progettista e il collaudatore contemporaneamente. Sono stati anni magici, ho vinto tutto quello che potevo vincere e ho conosciuto tante persone durante il percorso”.

Ha menzionato Alex Zanardi, con il quale si è sviluppato un rapporto che va oltre lo sport. È stato proprio lei ad indirizzarlo verso l’handbike, giusto?
“Esatto, ci siamo incontrati per caso in un Autogrill al confine tra l’Italia e la Francia nel 2005. Per cercare parcheggio mi sono imbattuto in una grossa macchina che occupava il posto per disabili, ed ero pronto a scommettere che fosse qualcuno di ‘abusivo’, che non avesse il diritto per parcheggiare lì. Invece mia moglie mi smentì, mi disse che anche lui fosse disabile e l’ho riconosciuto, era Alex. Si è voltato verso di me ed è rimasto incuriosito dall’handbike che tenevo sul tetto della macchina. Così abbiamo iniziato a chiacchierare e gli ho dato qualche informazione su questo sport che non conosceva. Poi, nel 2007, mi chiamò perché voleva partecipare alla Maratona di New York e così ho dovuto fargli una specie di ‘Bignami’ su questa disciplina. Da lì è nato tutto, la sua passione per l’handbike ma in primis una grande amicizia. Avremmo fatto un centinaio di gare insieme, sono stati anni intensi e ricchi di soddisfazioni. Indimenticabili”. 

Oltre alla sua rinascita dopo l’incidente, un secondo momento in cui ha dimostrato di avere delle risorse fuori dal comune è stato nel 2011, quando è arrivato secondo al Mondiale in Danimarca solo poche settimane dopo un incidente in allenamento in cui si era fratturato alcune vertebre…
“Anche qui c’è lo zampino di Alex. Dopo quell’incidente così grave avevo tanti dolori, non riuscivo nemmeno a stare seduto. Era metà luglio e il Mondiale sarebbe stato ai primi di settembre: non me la sentivo proprio di gareggiare. Anche perché canonicamente sarebbero serviti tre mesi di riposo. Tuttavia, saltando il Mondiale rischiavo di non qualificarmi per le Olimpiadi di Londra dell’anno successivo. Così Alex ha insistito, ha mandato la mia risonanza al dottor Costa, responsabile della clinica mobile della MotoGP, il quale mi disse che atleti come noi ce l’avrebbero fatta in molto meno di tre mesi grazie alle nostre capacità. Dopo poco tempo, quindi, ho ricominciato ad allenarmi e sono arrivato al Mondiale in una condizione che non avrei mai pensato di avere. Inoltre, lì ho conosciuto l’allenatore con il quale io ed Alex abbiamo poi vinto tutto, quindi da una situazione apparentemente sfortunata è nato qualcosa di bellissimo. Dal punto di vista sportivo, quella vittoria è stata la svolta più importante della carriera: a Londra 2012 ho portato a casa due bronzi e un argento, negli anni successivi ho vinto ancora e poi è arrivato il successo incredibile di Rio 2016. In quegli anni ho anche imparato a trarre dalle sconfitte i lati positivi, per capire cosa andasse fatto per migliorare ancora”. 

Ecco, proprio i Giochi di Rio sono stati forse l’apoteosi della sua carriera, con i due ori portati a casa con Luca Mazzone e Alex Zanardi…
“Senza dubbio. Vincere sia una gara individuale che quella a squadre è stato bellissimo. A Rio abbiamo messo a frutto tutta l’esperienza accumulata negli anni precedenti. Se io ad Alex ho dato tanto dal punto di vista tecnico, lui mi ha aiutato molto dal lato caratteriale, soprattutto nell’approccio alla competizione e alla sconfitta. Rio è stata sì l’apoteosi ma anche il punto che ha segnato un po’ il declino della carriera. Se Alex il giorno dopo aver vinto l’oro pensava già all’Olimpiade successiva, per me, che avevo vinto l’unico titolo che mi mancava, la motivazione è calata. Ho continuato a correre più per l’amicizia nei suoi confronti che per altro, in fin dei conti ci divertivamo nel fare quello che facevamo. Quando hanno spostato, causa Covid, le Olimpiadi di Tokyo dal 2020 al 2021, ho pensato di chiudere comunque la carriera, ma Alex mi ha convinto ad aspettare un anno e a partecipare ai Giochi con la nuova handbike che stava progettando. Mi ero fatto convincere, poi ovviamente quello che è successo ha messo la parola fine a tutto quanto. In ogni caso a quarantacinque anni tante cose cambiano, dai importanza ad altro che prima non consideravi. Nel mentre era tanto che speravo di avere dei bambini e per fortuna due anni dopo è arrivata mia figlia. Insomma, la mia carriera è iniziata a trent’anni, un’età alla quale di solito gli atleti normodotati si avviano alla fine del loro percorso agonistico…”.

Come ha detto, il suo non è un percorso che ha vissuto da solo. In passato ha sottolineato l’importanza di diffondere ciò che si impara, affinché altri possano trarne beneficio…
“Spesso, nello sport, ci sono atteggiamenti protezionistici riguardo alle proprie conoscenze e capacità. Tanti atleti non sono propensi, anche successivamente alle loro carriere, a trasmettere la loro esperienza. Io invece ho sempre pensato che quello che sai assuma ancora più valore se lo sanno anche gli altri. È come se una parte di te continuasse dopo quello che hai fatto. È una cosa che faccio ancora adesso, nel 2018 ho fondato una società sportiva anche per questi motivi. Ne fa parte anche Federico Mestroni, argento nel Team Relay ai Giochi di Parigi 2024. A lui ho trasmesso ciò che ho dato ad Alex, più i quindici anni di esperienza che mi porto dietro. Quando poi Federico ha vinto il Mondiale in casa è stata per me una soddisfazione forse ancora più grande rispetto a una mia vittoria. Il mio carattere mi porta a questo, ad essere ancora più gratificato se aiuto qualcun altro a raggiungere degli obiettivi. Non mettere al servizio degli altri la propria esperienza è come avere un frutto e tenerlo lì aspettando che marcisca”.

Federico Traverso

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