Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureando in Scienze della Comunicazione. Oggi parliamo di Beppe Maisano, che si appresta alla sua cinquantaduesima stagione come allenatore di calcio.
Beppe Maisano, la sua cinquantaduesima stagione in panchina è alle porte, la quinta consecutiva alla guida della Genova Calcio. Sensazioni? Obiettivi?
“L’obiettivo per questa nuova stagione è lo stesso che la Genova Calcio ha da molti anni, ossia rimanere nelle prime sei e cercare di fare i playoff, che sarebbero un traguardo importante e storico perché finora mai raggiunto. Siamo arrivati per due volte terzi ma i playoff non c’erano, e da quando li hanno introdotti abbiamo sempre concluso il campionato in sesta o settima posizione. Si tratta di un passaggio, un passaggio di crescita che deve portare nei prossimi anni la Genova Calcio ad ambire a qualche cosa di più dei playoff.”
Lei ha iniziato ad allenare giovanissimo, a 18, 19 anni era già in panchina…
“Ho iniziato ad allenare a quell’età spinto dalla passione per il calcio e dopo una valutazione che mi ha fatto capire di non avere le qualità per poter fare un percorso interessante da calciatore. Ho continuato a giocare per un po’ in Seconda Categoria, ma la passione per questo sport mi ha fatto fare questo passaggio. Inoltre, all’epoca svolgevo un lavoro educativo in un quartiere di Sampierdarena, e si è creato un parallelo tra l’attività di allenatore e la mia professione educativa e sociale.”
Ed è sempre la passione che la spinge ad allenare ancora oggi
“Assolutamente, la passione e l’amore per questo mondo, che ormai fa parte della mia vita da tantissimo tempo. Una cosa che penso sia importante da dire è che non ho mai ambito a rendere questa attività la mia professione. In certi momenti della mia vita la possibilità c’è stata, ma non è mai stato il mio obiettivo primario. Di conseguenza, non ho mai avuto le delusioni che molti hanno incontrato quando hanno alzato l’asticella. Non si allena per diventare un professionista, si allena perché si hanno le competenze e la passione. Lo stesso discorso vale per i ragazzi che giocano a calcio o per gli arbitri. Ormai siamo abituati a vedere ragazzini che giocano per diventare professionisti, non perché gli piace il calcio. La conseguenza? Quando, a 13 o 14 anni, vengono lasciati a casa dalle squadre professionistiche, smettono. È un momento negativo per lo sport, per il calcio in particolare, che porta ai risultati che abbiamo raggiunto ultimamente a livello nazionale.”
A proposito di giovani, in Italia è un tema ricorrente. Non vengono fatti esordire o crescere nel modo giusto, e la Nazionale degli ultimi anni ne è l’emblema. Cosa ne pensa e qual è la sua filosofia nella gestione dei giovani?
“Questo accade perché il nostro movimento è nettamente in ritardo. Oggi noi creiamo i centri di avviamento allo sport, seguiti dalla Federcalcio, trent’anni dopo che gli altri Paesi stanno già abbandonando. In Francia, Germania o Olanda erano già state fatte queste esperienze. Il problema primario è la scuola: non avendo la possibilità di fare attività sportiva in generale, noi abbiamo degli atleti al 50%. Non mi soffermo nemmeno sul fatto che i ragazzi non giochino più per strada o in oratorio. Hanno degli spazi di vita diversi, ma durante il periodo scolastico l’attività sportiva non viene portata avanti. Non ci sono nemmeno gli spazi per farlo: specialmente nella nostra città le scuole sono vecchie, non permettono nemmeno di portare avanti un’attività didattica normale, tantomeno quella sportiva. Perciò i ragazzi vedono le scuole calcio come un obbligo, e se non si divertono difficilmente possono costruire un percorso di crescita. Il secondo problema deriva dalla scelta ottusa di dover schierare obbligatoriamente dei giovani in Prima Squadra, un qualcosa che in Europa non fa nessuno. I giovani crescono e migliorano se riescono a confrontarsi per meritocrazia con dei giocatori forti. Facendoli giocare obbligatoriamente, i ragazzi non vengono aiutati, vengono bruciate intere generazioni. Da quando la regola è stata introdotta, tutte le leve che possedevano gli obblighi hanno avuto un tasso di abbandono superiore al 50%. Questo ci dà delle risposte. Così i giovani non crescono. Gli viene data una maglietta tra i primi undici, e non hanno nemmeno il piacere di conquistarla. Qui ci colleghiamo al discorso fatto per gli allenatori, che smettono se non vengono confermati dalle società professionistiche proprio perché allenano esclusivamente per raggiungere certe piazze. Tutto questo è indotto dai media e da una politica antisportiva e antieducativa che sta andando avanti nel nostro Paese.”
In tutti questi anni ha potuto vivere da vicino il calcio dilettantistico ligure in tutte le sue forme. Oggi trova delle differenze rispetto a quando ha iniziato?
“Per quanto riguarda la Federazione, mi sembra sempre un mondo molto vecchio, lo era prima e lo è ancora oggi. Il problema non è anagrafico, è che non si lavora con i giovani e non si accettano i cambiamenti. Le società sono state costrette a migliorarsi, in questo senso è cambiato moltissimo. Prima figure come il preparatore atletico, il preparatore dei portieri o l’allenatore in seconda non c’erano, mentre oggi alcune società di Eccellenza hanno dei mister con staff di cinque persone. Stiamo scimmiottando molto il calcio professionistico: questo porta a migliorare la qualità e il livello del calcio dilettantistico, ma ci sono anche delle derive negative, una su tutte la preparazione. Noi iniziamo il campionato il 29 settembre e c’è qualcuno che ha iniziato la preparazione il 25 luglio. Questo non serve alla società o alla squadra, serve, secondo me, all’allenatore perché in questo modo si sente professionista. Semplicemente anticipando il calendario. Questo non è essere professionali, ma credere di essere professionisti. Anche il calendario federale è sbagliato, noi iniziamo a fine settembre solo grazie alla presenza di un nuovo torneo Juniores UEFA, ma dovrebbe essere sempre così, permettendo a chiunque, studenti e lavoratori, di programmare anche delle vacanze. La Federazione è molto distante dalle esigenze delle società e di chi fa sport. Il movimento lo fa chi gioca, mentre per i dirigenti federali contano i presidenti. La base devono essere i praticanti.”
Cambiando argomento, tra i grandi allenatori del passato e di oggi c’è qualcuno a cui si ispira o ammira particolarmente?
“Io sono un mazzoniano. Mazzone è stato a lungo considerato un allenatore retrogrado, ma ascoltando le testimonianze dei vari Baggio e Guardiola ne emerge un uomo competente e dal cuore grande. Per me Mazzone è un’icona, a volte un po’ dimenticata. Passando ai giorni nostri, da spettatore e appassionato ammiro Bielsa, per quello che dice e quello che fa, e Klopp, come uomo e per il suo modo di giocare in verticale. Sono tre allenatori tutti molto amati dai loro giocatori. Per dirti un quarto nome, cito Ancelotti. Ha un carattere molto diverso dal mio, possiede una calma e una tranquillità nella gestione che io, in tutti questi anni, non sono mai riuscito a trovare. Sono molto più passionale, un mediano sanguigno, un Gattuso.”