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Meraviglie e leggende di Genova | 14 luglio 2024, 08:00

Meraviglie e leggende di Genova - Andrea Doria, un lago che non c’è più e quei biscotti che raccontano l’estro genovese

Costruito per volere di Andrea Doria nel Cinquecento, il lago, anche a causa delle sfortunate vicende che lo videro protagonista, venne chiamato dai genovesi ‘Lagaccio’. Fu proprio in un forno della zona che nacque la ricetta di questa delizia

Meraviglie e leggende di Genova - Andrea Doria, un lago che non c’è più e quei biscotti che raccontano l’estro genovese

Qui una volta c’era un lago”, esclama ancora oggi qualche anziano mentre passeggia accanto al campo da calcio del Lagaccio, richiamando alla memoria ricordi di fotografie in bianco e nero scattate prima della definitiva copertura del bacino artificiale negli anni Sessanta.

Il pensiero va subito a quel lago artificiale, nato con l’intento di portare acqua fresca lungo la vallata e fino alla villa costruita da Andrea Doria nella zona di Fassolo, ma teatro, suo malgrado di disilluse attese e tragedie che gli valsero il nome di ‘Lagaccio’.

Il ‘Principe’, come veniva chiamato il condottiero e doge genovese, nel 1521 fece costruire la sua villa, detta appunto Villa del Principe, a poca distanza dalla porta di San Tommaso, oggi persa.

Un palazzo ricco di fontane, disseminate nel giardino, che necessitavano di una riserva idrica, realizzata a monte della struttura, a San Teodoro.

L’invaso di modeste dimensioni venne collegato alla residenza del Doria con un lungo acquedotto in muratura su cui vennero costruiti lavatoi a disposizione delle massaie.

Il lago era alimentato dalle acque piovane e dalla sorgente del rio San Tommaso ma, forse per il lento ricambio o forse per la conformazione, in pochi anni le acque divennero stagnanti e il fondale limaccioso, tanto da renderlo inutilizzabile e pericoloso.

Non certo il luogo più amato dai genovesi che iniziarono a chiamarlo ‘u lagassu’, ‘il lagaccio’, appunto.

A metà del Seicento, le acque dell’invaso servirono per alimentare i macchinari di una polveriera poco distante che, nell’Ottocento divenne una caserma militare; negli anni Sessanta l’amministrazione comunale, dopo i lavori del caso, decise di chiudere l’invaso e di realizzare al di sopra un campo da calcio e di hockey, intitolato a Felice Ceravolo, un ragazzino di dodici anni annegato proprio nelle acque del lago.

Fu in questa zona che nel 1593, tra le diradate case, un fornaio impegnato nella produzione di gallette per lo più a uso militare e per la conservazione sulle navi, ideò una sorta di fetta biscottata, più dolce, un pane divenuto celebre con il nome di biscotto del Lagaccio.

Leggeri ma più grandi come dimensioni, a volte aromatizzati ma sempre friabili e di lunga conservazione, i biscotti divennero in poco tempo tra le prelibatezze più amate dai genovesi.

La produzione è il risultato di un preciso tempo di lievitazione dove il primo impasto con farina, acqua e lievito madre riposa per alcune ore mentre di prosegue a preparare un secondo impasto di farina e zucchero. Questi due pani, mescolati, vengono modellati in lunghe strisce fatte riposare prima di essere infornate. Dalla prima cottura, a fuoco basso, si attendono ventiquattro ore prima di tagliare i pani nelle consuete fette trasversali che vengono nuovamente passate in forno nella bis-cottura che conferisce il caratteristico aspetto e la consueta consistenza.

Tante le pasticcerie che, negli anni, hanno scelto di portare avanti la produzione di questi biscotti che, da alcuni decenni, sono realizzati anche con macchinari industriali.

Non era raro così negli anni Sessanta, trovare trovare sugli scaffali delle piccole botteghe di quartiere che tanto oggi mancano, i biscotti della Saiwa e i biscotti del Lagaccio, in un dolcissimo derby che scatenava le preferenze di grandi e piccini.

Persino Eugenio Montale, grande poeta genovese e Premio Nobel per la letteratura nel 1975, non ha mancato di raccontarli ricordando la sua abitudine di accompagnarli con un semplice bicchiere di latte.

Tra le diverse pasticcerie che ancora oggi producono questi biscotti, Tagliafico ha scelto di mantenere viva l’antica manualità del taglio delle ‘micche’. Dopo la prima cottura, con una lama particolare, il mastro Giacomo incide l’impasto prima di strappare a mano i pezzi, uno a uno. Questo rende i biscotti irregolari dando loro ancora maggiore friabilità.

Filippo Tagliafico, che assieme ai fratelli Anna Maria e Lorenzo, porta avanti la tradizione della famiglia, ricorda la sua infanzia: “Sono stati la mia merenda quotidiana. Oggi invece il consiglio che posso dare è quello di spalmare un Lagaccio con un sottile velo di burro, magari freddo dal frigo, e di marmellata, prima di intingerlo nel latte”.

Isabella Rizzitano

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