Eventi - 06 luglio 2024, 08:15

Mauro Pagani a Genova celebra i quarant’anni di Crêuza de Mä: “Far parte dei bei ricordi delle persone mi fa sentire fiero”

Il polistrumentista si esibirà il 9 luglio a Villa Bombrini nell’ambito del Lilith Festival, portando in scena le canzoni del celebre disco scritto insieme a Fabrizio De Andrè: “Essere musicisti oggi? Solo se non hai scampo. Deve far tremare la tua anima, non è produrre merce”

Crêuza de Mä compie quarant’anni: nel 1984 Fabrizio De André e Mauro Pagani hanno pubblicato quello che è una delle pietre miliari della musica, certamente degli anni Ottanta, ma anche di oggi. Non esiste genovese che non leggerà cantando l’incipit della canzone che dà il titolo all’album: “Umbre de muri, muri de mainæ / dunde ne vegnî, duve l'é ch'anæ?” e che non sia stato cullato dal suo ipnotico ritornello, fatto di corde e voci, certo, ma anche di profumi, consistenze, sensazioni che sanno di casa.  Quarant’anni dopo è proprio Mauro Pagani a portare sul palco, ancora una volta, quel lavoro senza tempo che ancora oggi è in grado di incantare generazioni di sognatori, e lo fa in compagnia di sei musicisti e due coristi. La tappa genovese è targata Lilith Festival, e vedrà il concerto svolgersi nella verde cornice di Villa Bombrini a Cornigliano giovedì 9 luglio, a chiusura della rassegna dedicata alla più interessante musica cantautorale. 

 

Non sono genovese, ma è come se fossi diventato ligure nel corso degli anni - racconta l’artista alla Voce di Genova -. Sento la Liguria come se fosse realmente casa mia ormai, e per questo sarà un concerto molto emozionante”. Un’emozione che sarà forte sia sopra al palco, sia tra il pubblico, che fino a oggi ha risposto in modo positivo a questo tour: “Sono sempre bellissimi concerti e il pubblico è davvero bellissimo. Suoniamo i pezzi che ho fatto con Fabrizio e alcuni brani miei: la scaletta è bella ed emozionante per noi e per la gente, per adesso è andato tutto benissimo e speriamo che continui così”. 

Una celebrazione di un album, ma anche di un’amicizia speciale, iniziata nel 1980 e che, nonostante tutto, ha ancora voglia di essere cantata: “Io e Fabrizio ci siamo conosciuti in uno studio di di registrazione vicino a Milano: io stavo registrando il mio ‘Sogno di una notte d’estate’ per Gabriele Salvadores, e lui era impegnato nella registrazione de ‘L’Indiano’ nello studio di fronte. Abbiamo legato mangiando insieme la sera, commentando i giornali, guardando la tv… il modo migliore di diventare amici. Da bravo genovese poi ha capito che assumendo me avrebbe risparmiato sul cachet di un paio di musicisti (ride) visto che i suoi brani erano pieni di corde, violini, mandolini…. Quindi abbiamo iniziato a lavorare insieme per la tournée dell’Indiano, ero musicista nei live anche se non aveva partecipato al disco. In quegli anni avevo iniziato la mia ricerca sulla musica mediterranea, e portavo in giro con me delle audiocassette in cui collezionavo i pezzi che mi piacevano di più da ascoltare anche durante i viaggi per andare ai concerti. Anche Fabrizio ha iniziato a sentire questi brani, e un giorno ha esclamato: ‘Sono stufo degli americani, facciamo un disco mediterraneo!’ Subito non lo avevo preso sul serio, poi in due mesi il disco era scritto. L’idea del genovese è stata vincente, sarebbe stato difficile usare la lingua italiana. Per registrarlo ci abbiamo impiegato altri quattro mesi, abbiamo iniziato a lavorare ad agosto e abbiamo finito a Natale: eravamo a pezzi, Fabrizio è sempre stato l’uomo dai mille dubbi e il lavoro è stato lungo, ma alla fine c’era tanta soddisfazione”. 

Una lunga carriera quella di Pagani, iniziata insieme alla PFM nel 1970 e proseguita come solista fino all’incontro con Faber, del quale è stato produttore e arrangiatore, oltre che amico e musicista. Un maestro della musica, che nel 2012 è entrato di diritto nella classifica dei cinquanta artisti simbolo della musica indipendente italiana, risultato di un referendum del MEI (Meeting delle etichette indipendenti). “La parola maestro subito non mi piaceva, ho conoscenza approfondita dei miei limiti - spiega il polistrumentista - ma oggi riesco ad accettarlo. Nel corso della vita ho visto che tutti i mestieri identificano i loro maestri, così ho deciso che potevo accettarlo anche io, ognuno nel suo campo. È un complimento e lo prendo come tale, anche se quello che mi fa sempre molto piacere è rendermi conto di far parte dei bei ricordi delle persone. Questo mi fa sentire fiero, in qualche modo”.

Ricordi, sì, ma anche attualità: sempre più giovani artisti trovano riferimenti e insegnamenti preziosi nelle canzoni contenute in quell’album, ma i suggerimenti per chi, oggi, vuole avvicinarsi al mondo della musica sono pochi e molto lucidi: “Oggi il mestiere del musicista va scelto solo se non si ha scampo, se la passione è così forte da dare la determinazione per superare umiliazioni, i ricatti e le difficoltà a sopravvivere… è un lavoro che comporta tanto impegno, concentrazione e sacrifici. Se non hai scampo puoi farcela, se no meglio che tu faccia qualcosa di diverso, almeno ti togli dal ricatto di essere vulnerabile: se fai musica e non sei libero di fare quello che vuoi perché sei schiavo dei gusti di un discografico o di un artista con cui stai lavorando diventa tutto più difficile. I miei erano i tempi d’oro, abbiamo avuto la fortuna di attraversare anni in cui si poteva campare di musica, il mondo era pieno di locali e di gente che suonava e tutti lavoravano e avevano i soldi per comprarsi gli strumenti. Adesso è più difficile, e quello che noto, con una punta di tristezza, è vedere gente che magari ha un milione di follower e in sei mesi sparisce. Quello che ti viene offerto è di produrre merce, non qualcosa che fa tremare davvero la tua anima, è un po’ intrattenimento che passa di moda in un attimo. Creuza de mä sembra prodotto oggi, non ha tempo, ha la fortuna che non tanti dischi hanno: molti passano di moda per il genere, qui ci sono pezzi che stanno, che tornano a crescere, ed è bello far parte dei bei sogni della gente”.

Tra le esperienze collezionate negli anni, c’è stata anche quella di direttore artistico del Festival di Sanremo nel 2013: “Mi sono formato da autodidatta, ho studiato da solo e non sono diplomato in musica ma al liceo classico. Da quel lavoro ho imparato tantissimo, sono felice di averlo fatto: è un giocattolone, con un’orchestra da settanta elementi e con tanti brani da arrangiare. Mi sono divertito, ma non so se lo rifarei: ci vuole un sacco di forza, i tempi sono diversi oggi, ed è un lavoro che dura mesi, non solo la settimana del Festival”.  

Prima di salutarci e di darci appuntamento al concerto del 9 luglio, l’ultima battuta riguarda la canzone che più lo emoziona contenuta nell’album, quella che ancora oggi riesce a muovere qualcosa dentro: “A parte Creuza de mä direi Sidún, che di questi tempi è tragicamente di nuovo di moda. Sidone era stata scelta da Fabrizio perché simbolo di coraggio e stupidità degli uomini, distrutta venti volte e ogni volta ricostruita, e ancora adesso senti raccontare prospettive, sogni incubi di guerra che sinceramente pensavo che non avrei incontrato”.