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Sport | 22 giugno 2024, 08:00

Lo Sport che amiamo - Roberto Libbi: "Così insegno tennis: devi avere undici ruoli in uno"

"Oggi c’è un incremento di richieste, ma la particolarità è che tutti si sentono tennisti. Tutti ti parlano di tennis pur non conoscendo la disciplina. Sta diventando uno sport da bar"

Libbi al centro con squadra di D1 dello Sporting Pegli 2 promossa in Serie C

Libbi al centro con squadra di D1 dello Sporting Pegli 2 promossa in Serie C

Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una nuova rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureando in Scienze della Comunicazione. L'ospite di oggi è Roberto Libbi, stimatissimo maestro di tennis, che ci racconta la nuova giovinezza di questo sport grazie a campioni come Sinner.

Il tennis, essendo uno sport individuale, pone gli allievi già dai primi anni in situazioni differenti rispetto a sport come il calcio o il basket. In questo senso il tennis che valori insegna?
Essendo uno sport individuale, il tennis ti obbliga a doverti organizzare da solo. Prendendo l’esempio del calcio, lì ci sono undici componenti di una squadra e ognuno ha un ruolo diverso. Il tennista deve cercare di avere undici ruoli in uno: deve fare contemporaneamente il portiere, l’attaccante o il centrocampista. La cosa più complessa, soprattutto per un ragazzo ma anche per un professionista, è l’aspetto mentale legato all’organizzazione autonoma. Dalla vita all’allenamento. Riprendendo come esempio il calcio, le trasferte delle squadre sono organizzate, così come il pullman o gli alberghi. Il giocatore di tennis, soprattutto ad alti livelli, fa tutto da solo anche se, ultimamente, i team privati aiutano molto. Il ragazzo, parlando di valori, impara molto ad avere fiducia in sé stesso e a credere nell’etica del lavoro o dell’allenamento. Il tennis lo aiuta a credere di poter superare delle difficoltà, perché non tutti ovviamente possiedono lo stesso livello di talento. La fiducia in sé stessi è la cosa principale, e non è da confondere con la presunzione, qui si parla di mostrare la propria presenza all’avversario in quello che è un “head to head” continuo”. 

Un maestro ha un ventaglio di allievi ampissimo, dai bambini agli adulti, da chi si affaccia per la prima volta alla disciplina agli agonisti. Date queste premesse, quali sono le maggiori difficoltà per chi insegna?
All’inizio di una carriera di un maestro, bisogna cogliere l’essenza di tutti i vari segmenti di clientela. Oggi i ragazzini possono iniziare anche a quattro anni, tanti anni fa si iniziava a giocare intorno ai sette o otto anni, come è capitato a me. Adesso è tutto più veloce, anche i materiali sono diversi rispetto a un tempo e questo facilita i ragazzi nell’iniziare prima. All’inizio, un maestro deve cercare di capire qual è la sua strada: cominci con i ragazzini, poi con quelli un po’ più grandi, oppure puoi cercare di seguire l’agonista il che è sempre interessante o fare dei corsi per adulti. Facendo un discorso prettamente economico, quando hai 25-30 anni non puoi rifiutare nulla, ma con il tempo ognuno si specializza. Oggi, che ho qualche anno in più, sono più legato a una fascia di competenza di agonisti, avendo allenato anche ragazze con classifica WTA, come Annalisa Bona (numero 11 d’Italia) o Giulia Bruzzone (numero 18 d’Italia) con cui abbiamo giocato per tre anni la Serie B al TC Pegli. La cosa difficile è il porsi, all’inizio della carriera, di fronte a un panorama vastissimo, per il quale bisogna saper cambiare anche un po’ maschera. Con un ragazzino devi essere un po’ più giocoso, con l’adulto sei più deciso, mentre con l’agonista è un mondo ancora diverso. È importante in questo senso essere poliedrici, riuscendo a cambiare anche da allievo ad allievo perché ognuno ha il suo carattere. Il maestro è uno solo, ma ha tante sfaccettature diverse: non è l’allievo che si uniforma, deve avvenire il contrario”. 

In Italia stiamo assistendo ad un boom tennistico come forse mai prima d’ora. Dato che vivi il tennis ogni giorno, lo noti nella quotidianità del tuo lavoro?
Questo boom potrebbe essere equiparabile a quello del 1976 con Panatta e la squadra di Davis. La differenza sta nell’esposizione mediatica, oggi con Internet e i social la visibilità è estrema. Nel ’76 avevo undici anni, e riuscire a vedere delle partite di tennis in televisione non era semplice. La Rai addirittura interrompeva le finali di Davis… In quel periodo i maestri erano oberati dal lavoro, c’era una richiesta incredibile. Il boom di adesso è ancora più importante per via delle televisioni, dei social e dell’informazione quotidiana. Sicuramente c’è un incremento di richieste, ma la particolarità è che tutti si sentono tennisti. Tutti ti parlano di tennis pur non conoscendo la disciplina. Sta diventando uno sport da bar, di massa come il calcio in cui ognuno vuole mostrare le sue conoscenze sulla realtà tennistica. È un boom notevole, e non si parla solo di Berrettini e Sinner: dietro di loro ci sono dieci/quindici giocatori tra i primi duecento del mondo, da Sonego ad Arnaldi fino a Darderi o Cobolli. Oppure nel doppio, con Bolelli e Vavassori. Ai tempi di Panatta tutto questo non c’era. Non bisogna dimenticare la grande realtà femminile di qualche anno fa, con Vinci, Pennetta, Errani, Schiavone, o di oggi con la Paolini numero 7 del mondo. L’esposizione mediatica è notevolissima, e sicuramente incrementa le possibilità nel nostro lavoro”. 

Sinner è il fenomeno trainante del movimento tennistico in Italia. In che modo l’altoatesino può essere un esempio positivo per chi gioca a tennis?
In maniera goliardica reputo Sinner non al 100% italiano, ma non per un discorso di nazionalità quanto più perché è un campione atipico. Panatta poteva rappresentare l’atleta italiano classico nelle sue caratteristiche: poliedrico, esuberante, anche presuntuoso, stiloso, non proprio il lavoratore indefesso… Sinner è un esempio perchè, al contrario, porta in gioco la linearità, la semplicità del lavoro dello sportivo. L’etica del lavoro con lui prende corpo e viene innalzata all’ennesima potenza: è colui che lavora su ogni particolare, non esce la sera, cura il fisico e l’alimentazione. Tutti fattori che permettono a un giocatore di diventare un campione e che lo rendono un esempio per i ragazzi. Sinner dà l’impressione di non fare fatica a seguire questi ritmi, perché ha sempre il sorriso sulle labbra. È di esempio anche il dualismo tra lui ed Alcaraz, poiché è una rivalità sana. Sono due sportivi sani che con la loro gioia e voglia di lavorare ispirano il ragazzo in maniera fondamentale”. 

Tu hai seguito da capitano anche molte gare a squadre, che portano la dimensione del gruppo in uno sport individuale come il tennis. Cosa cambia nella gestione di un giocatore quando è impegnato in una competizione a squadre rispetto ai tornei individuali?
È una domanda interessante, si parla di due mondi totalmente diversi. Nelle gare a squadre, su tutte la Coppa Davis, si forma una famiglia, un nucleo formato da giocatori che a volte non sono propriamente amici. La dimensione collettiva consegna al giocatore una responsabilità diversa, e spesso questo lo porta a rendere di più. La gara a squadre è una di quelle poche situazioni in cui il giocatore può avvalersi del sostegno di un gruppo e di un capitano. Anche per questo i tennisti per girare il mondo formano intorno a loro dei team, perché farlo da soli sarebbe complicato. Un po’ come capitava a Valentino Rossi, che stipendiava degli amici in quanto tali, senza un ruolo preciso. La gara a squadre forma in maniera differente il giocatore che, nella maggior parte delle volte, a mio parere è più performante: ha più stimoli, più responsabilità ma viene aiutato da un’intera squadra. Succede anche nella nostra realtà, ad esempio Nicolò De Martino, uno che è stato sempre alla base della nostra squadra, quando gioca da solo sente un po’ la nostra mancanza. Giocare in una dimensione di collettività aiuta il tennista a stemperare le tensioni del singolare, dandogli la sensazione di essere in uno sport di gruppo anche se in campo è solo, perché sente il sostegno. Chi di una nazione, chi di un circolo”. 

È infatti recente la promozione della squadra dello Sporting Pegli 2, di cui tu sei capitano, in Serie C, arrivata pochi giorni dopo la scomparsa di Gianni Campanella, socio fondatore del circolo che ti portò proprio qui allo Sporting tanti anni fa. Un traguardo che quindi assume un significato ancora più profondo…
Sicuramente, il primo pensiero è stato quello di dedicare questo storico traguardo, che per lui sarebbe stato importantissimo, proprio a Gianni. Dopo la vittoria abbiamo postato sui social la foto della nostra squadra e l’ombra che si vede è proprio la sua, era lui ad averla scattata. Lui simboleggiava i valori di uno sport salutare, aggregante, era presente in tutto e per tutto, sempre con il sorriso. Gli stiamo dedicando un campo qui al circolo proprio per l’importanza che aveva nel tennis, non solo dello Sporting ma della Liguria. Ha seguito per molti anni il Challenger di Genova come Giudice Arbitro ed era ben voluto da tutti. Era anche un po’ il nostro “portafortuna”, dato che abbiamo vinto per due volte la Serie C femminile con lui presente come Giudice Arbitro. Dedichiamo a lui questa vittoria, sicuramente ci teneva e, ovunque sia ora, gli farà piacere”. 

Federico Traverso

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