Attualità - 13 maggio 2024, 08:00

Ieri la ‘ndrangheta, oggi la mafia: ma su Genova e la Liguria il voto di scambio non passa mai di moda

Nel luglio del 2010 l'operazione 'Maglio 3' portò all'arresto di Domenico Gangemi, il ‘besagnino’ di San Fruttuoso. L'ombra della criminalità organizzata sembra non aver abbandonato il capoluogo ligure

Quattordici anni dopo l’arresto di Domenico Gangemi, il ‘besagnino’  di San Fruttuoso considerato il referente della ‘ndrangheta per la Liguria, l’ombra della criminalità organizzata sembra non aver mai realmente abbandonato il capoluogo ligure. 

Se spesso si è  ipotizzato che fosse il ponente della regione a essere maggiormente interessato da questo tipo di infiltrazioni, Genova sembrava aver rimosso le ‘mele marce’ e intenzionata a proseguire speditamente verso il futuro. Quel futuro, però, è il nostro attuale presente, e nonostante gli anni trascorsi qualcosa sembra non aver funzionato a dovere. Tra le accuse sollevate in quest’ultima, bollente settimana giudiziaria a Giovanni Toti c’è infatti quella di corruzione elettorale, che ha visto protagonisti insieme al governatore i fratelli gemelli Italo Maurizio e Arturo Angelo Testa. Oggi ai domiciliari, il presidente della regione è accusato di aver elargito favori in cambio di voti; i fratelli Testa, originari di Riesi ma residenti nel bergamasco e negli ultimi tempi attivi tra le file di Forza Italia, sono anch’essi accusati di voto di scambio, con l’aggravante di aver agevolato il clan dei Cammarata, muovendosi principalmente in Valpolcevera, nel quartiere di Certosa

Ed è impossibile non riportare la mente a quanto accaduto nel mese di luglio del 2010, quando l’operazione ‘Maglio 3’ portò dodici persone a essere indagate perché ritenute appartenenti “a un gruppo di affiliati alla ‘Ndrangheta calabrese, operativo sul territorio ligure e suddiviso in quattro articolazioni territoriali e cioè in quattro ‘locali’ collocate nei centri di Genova, Ventimiglia, Lavagna e Sarzana, che interagiscono tra loro, coordinate da un organo detto ‘camera di controllo della Liguria’ anche se dotati ciascuno di una certa autonomia organizzativa” come riportato sull’ordinanza. Allora alcuni dei legami saltati agli onori della cronaca erano tra lo stesso Gangemi e il consigliere comunale, nonché vice capogruppo del Pdl, Aldo Praticò, certificati anche da alcune fotografie che il politico liquidò come figlie di un incontro durante una festa in cui c’era tanta gente. Altro ‘protagonista’ fu il consigliere regionale Alessio Saso (anch’egli nelle fila del Pdl): secondo gli inquirenti la sua candidatura venne sostenuta proprio da Gangemi.  

Le condanne di quegli anni fecero apparire evidente il legame tra l’amministrazione e il crimine organizzato: il ‘verduraio’ venne condannato a diciannove anni e sei mesi di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma una volta chiusa la porta della cella, il ‘problema’, se di ‘problema’ di può parlare, non è certo sparito. In un articolo pubblicato lo scorso mercoledì, Libera Liguria scrive: “Gli scali marittimi rappresentano per le reti di corruzione e per i gruppi criminali un’opportunità per incrementare i propri profitti e per rafforzare collusioni. I porti, infatti, sono rilevanti sia per i business creati dai traffici, sia per gli investimenti necessari per mantenere le infrastrutture operative, entrambi possibili campi di espansione degli interessi criminali e corruttivi. La ricerca condotta sul porto di Genova e la recente inchiesta mostrano che i porti sono infrastrutture che generano enormi ricchezze, su cui interessi corruttivi e criminali possono manifestarsi. Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche fortune in termini di consenso politico e costruzioni di carriere politiche e imprenditoriali. Ecco perché è necessario guardare al porto non solo come porta di accesso per merci (legali o illegali), ma anche spazio in cui si definiscono e da cui si proiettano scelte strategiche per l’intero territorio”. Necessario, se non indispensabile.