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Un Occhio sul Mondo | 04 maggio 2024, 09:00

Morire per Taiwan?

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

Morire per Taiwan?

Nel giro di un mese, gli Stati Uniti e la Cina hanno fatto un paio di prove di distensione, discutendo della situazione internazionale e di altri temi di estrema importanza per i due Colossi e, di conseguenza, per gran parte del resto del mondo.

I tentativi sono stati fatti ai massimi livelli, perché prima si sono sentiti i due sommi Capi Biden e Xi Jinping, con una lunga telefonata il 2 aprile e poi il Segretario di Stato USA Blinken ha fatto visita a Pechino lo scorso 2 maggio.

La prima considerazione che si può fare é che entrambe le parti sono perfettamente consce dell'ineluttabilità della loro competizione strategica, su tutti i piani, compreso quello militare, ma sono altresì consapevoli che, a fattor comune ma per ragioni diverse, è molto importante limitare i danni, perlomeno nell'immediato. Indubbiamente, per Biden la ragione principale sono le prossime elezioni presidenziali, mentre per il Leader cinese si potrebbero elencare altre motivazioni come i rallentamenti demografico ed economico, un presunto problema sociale, l'esigenza vitale di esportazione. Tuttavia, forse la ragione più importante, potrebbe essere quella che fa più paura a tutti, anche solo a pronunciarla e che riguarda il settore militare, l'unico in cui la Cina sa di aver difficoltà a competere con l'America, tanto da renderla dipendente dalla Russia, soprattutto per il potenziale nucleare. Anche se, in fondo, per retaggi storici e culturali, a Pechino probabilmente questo non piace proprio.

In queste due tornate di colloqui, gli argomenti affrontati dai due competitors sono stati molteplici. Dalla concorrenza tecnologica, che vede la Cina essere ancora parzialmente dipendente dall'importazione della stessa tramite gli investimenti stranieri, soprattutto quelli americani che, nell'ultimo periodo sono decisamente diminuiti. Alla situazione internazionale, con i conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas in primo piano, ma con riferimenti anche alle ultime “intemperanze” della Corea del Nord, che preoccupano non poco Washington, visto che Pyongyang qualche bomba atomica ce l'ha e una buona dose di follia al suo Leader non manca.

Indubbiamente, l'attuale instabilità internazionale non piace alla Cina, perché rende più difficoltosi i suoi commerci e nuoce alle sue mire di espansione verso le aree medio-orientale, africana e mediterranea. Tuttavia, contestualmente comporta anche qualche vantaggio per Pechino, soprattutto perché distrae l'attenzione e le forze militari americane dal Teatro Indo-pacifico, dove la Cina intende esercitare la sua influenza e dove, in particolare, dovrà e vorrà prima o poi risolvere il suo “problema Taiwan”.

Ed è proprio la questione che riguarda questa grande isola, piantata al centro del Mar della Cina e a circa 150 km dalle coste cinesi, che non trova alcuna possibilità di mediazione tra Washington e Pechino, perché quest'ultima non recede minimamente dalla sua posizione di considerarla una Regione della Repubblica Popolare Cinese.

Su questo punto la Cina si è sempre dimostrata assolutamente intransigente e mai ha prospettato margini di trattativa, confermando costantemente che il ricongiungimento di Taiwan costituisce la sua “linea rossa” e che è disposta anche all'opzione militare per farla rispettare.

Le questioni territoriali ancora irrisolte nel mondo che creano tensioni sono molte e, come quasi sempre, la Comunità Internazionale stenta ad individuare soluzioni e a farle rispettare, ma la disputa su Taiwan è quella che potenzialmente può determinare la crisi internazionale di più drammatiche proporzioni. Qualche cenno di storia può aiutare a comprendere meglio.

Ai primi del '900, dopo circa duemila anni di regno, il dominio imperiale non fu più in grado di garantire il controllo di quell'immenso territorio sia per i tentativi di dominazione straniera di Inglesi, Russi, Giapponesi, Francesi e Tedeschi sia per i conflitti interni tra molti Signori della Guerra. In quel clima di disordine, nel 1919 venne fondato il Partito nazionalista del Kuomintang, che formò un esercito per porre fine alle guerre interne e dare stabilità e autonomia alla Cina. Inizialmente e per ottenere lo scopo, si alleò con il nascente Partito Comunista, ma con la sua ascesa, il Generale Chiang Kai-Shek ruppe qualsiasi possibilità di collaborazione e nel 1928 costituì un proprio governo. La 2^ Guerra Mondiale pose temporaneamente fine alla lotta di potere ma, con la sua fine, si arrivò alla guerra civile tra le forze comuniste di Mao Zedong e quelle nazionaliste, vinta dalle prime nel 1949.

Nel frattempo, l'isola chiamata dai Portoghesi Formosa, con il termine della 2^ GM, dall'occupazione giapponese ritornò ad essere parte integrante della Cina, ma non trovò pace perché divenne il rifugio dei Nazionalisti sconfitti in fuga, i quali proclamarono la costituzione della Repubblica di Cina. Tra l'altro, il Generale si portò via tutte le riserve auree e razziò la Città Proibita e il Palazzo Imperiale di Nanchino.

La nuova Nazione venne riconosciuta da molti Paesi occidentali, addirittura ottenne un seggio all'ONU e durante la Guerra Fredda fu alleata degli USA, che ne fecero un baluardo dell'anti-comunismo.

Contestualmente, nella Cina continentale i Comunisti di Mao diedero vita alla Repubblica Popolare Cinese, per cui a quel punto erano due le Nazioni che rivendicavano il diritto di essere i legittimi eredi del popolo cinese.

In tale contesto, è interessante e significativo esaminare cosa è successo in ambito ONU che, comunque, costituisce la più importante e globale Organizzazione internazionale al mondo. La Repubblica di Cina fu tra le Nazioni fondatrici delle Nazioni Unite nel 1945 e quando si pose il problema che erano due i “Paesi cinesi” che ne rivendicavano l'eredità, il posto come membro permanente del Consiglio di Sicurezza fu assegnato a Taiwan, soprattutto per volere degli USA, che cercarono di evitare una maggiore presenza comunista nel massimo organo decisionale dell'ONU. Tuttavia, negli anni '60 e '70, con in testa l'Unione Sovietica, il blocco socialista fece quadrato e alla fine, nel 1971, costrinse le Nazioni Unite a trasferire alla Repubblica Popolare l'autorità di sedere nel Consiglio di Sicurezza.

Questo passaggio di importanza fondamentale nel Diritto Internazionale diede ulteriore forza alle rivendicazioni cinesi, che partorì il concetto di “One China Policy” che persegue il riconoscimento diplomatico della sua posizione, secondo cui esiste un solo legittimo governo che è quello di Pechino, che non riconosce la Repubblica di Cina e considera Taiwan come una Provincia cinese ribelle che, prima o poi, dovrà essere riportata nell'alveo della legalità cinese.

Con l'avvento di Dend Xiaoping, a metà degli anni '70, la Cina cominciò la sua evoluzione di apertura verso il resto il mondo, che la ripagò con un progressivo e sempre maggiore riconoscimento, in termini di relazioni diplomatiche e commerciali, a discapito di Taiwan. Quest'ultima non fu però abbandonata dagli Stati Uniti, di certo non solo per ragioni di diritto internazionale, peraltro tutte da verificare, ma sicuramente per esigenze strategiche nazionali, in quanto faticano di certo ad accettare il pensiero di rinunciare ad una Nazione satellite, situata proprio davanti alla Cina e al centro di una delle Regioni mondiali di maggiore importanza.

Ma a questo punto, una domanda è lecita. Dato per scontato che la Repubblica Popolare Cinese non rinuncerà mai al proposito di riprendersi Taiwan e dato per certo che esiste un'ipotesi militare cinese per conseguire tale obiettivo, quale è il prezzo che gli Stati Uniti e, forse, una parte del mondo occidentale sono disposti a pagare per impedire tutto questo?

E' una domanda a cui la Comunità Internazionale, come spesso le accade, cerca di non dare risposta o di allontanare sempre più il momento in cui sarà costretta dagli eventi a darla. Però un'altra cosa appare certa, che “quel momento” per Pechino esiste, è concreto e arriverà.

Ecco perché, in un articolo precedente, sono state espresse tutte le perplessità per la decisione del Governo italiano di inviare prossimamente la nostra portaerei Cavour e la sua scorta nell'Indo-pacifico, dove effettuerà anche una campagna di addestramento con una Task Force navale americana, proprio sotto gli occhi attenti dei Cinesi, che potrebbero aver già iniziato “la conta” di quali potrebbero essere i loro nemici, quando per loro arriverà “quel momento”.

Marcello Bellacicco

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