Ha fatto del dialetto genovese e della sua diffusione, così come della sua salvaguardia, una vera missione incontrando un largo consenso che lo ha reso una vera celebrità con tanto di fan club anche sui social network.
Gilberto Volpara, giornalista con una ventennale esperienza alle spalle, oggi volto di ‘Scignoria!’, la trasmissione in onda tutti i giovedì su Telenord, è diventato il beniamino di grandi e piccini con l’impegno a riscoprire una delle lingue che, forse come poche altre al mondo, è stata capace di assorbire influenze di terre lontane e trasformarle per comporre il suo personalissimo vocabolario.
La prima domanda forse è un po’ stupida: com’è nata l’idea di portare il dialetto genovese in televisione e farlo diventare protagonista?
“È una mia vecchia convinzione legata al fatto che ci sia ancora spazio per esaltare le nostre tradizioni e la lingua resta la bandiera di tutto questo. Dopo una lunga militanza a Primocanale, quest’anno il mio passaggio a Telenord ha ampliato la convinzione della tv, già presente da decenni, volta a valorizzare un segmento su cui l’editore Massimiliano Monti ha sempre creduto. È stata fondamentale la determinazione del direttore Giampiero Timossi e così ogni giovedì sera, assieme al professor Franco Bampi, proponiamo un menù all’insegna di interazione costante con il pubblico, musica, pari dignità per qualsiasi parlata ligure e poi c’è la simpatia della gioventù di Carolina Barneri che a tempo record impara il genovese e segna un incentivo per tanti ragazzi totalmente a digiuno. La vera differenza poi è fatta dai personaggi, spesso unici di questa regione”.
Spesso e volentieri si creano degli sketch meravigliosi durante il programma, ma vista l’esperienza con la conduttrice mi viene da chiedere: sempre meno giovani parlano il genovese, perché secondo lei dovrebbero avvicinarsi a riscoprire il dialetto?
“Credo che sia una partita persa, sono molto pessimista su questo. Poi, devo essere sincero, la trasmissione ha aiutato e sta aiutando tantissimo e io plaudo qualsiasi tipo di iniziativa, che sia cartacea, televisiva o radiofonica. Certo, la televisione su questo è ancora un mezzo portentoso perché capisci la pronuncia, e leggere il genovese non è certamente come parlarlo, senza dimenticare poi la scrittura che è ancora un mondo a parte. Premesso quindi che la trasmissione televisiva del giovedì sera dà un apporto clamoroso, vedo nelle nuove generazioni una riscoperta di quello che era il sapere della nonna. Noi scontiamo la perdita della generazione dei nostri genitori, persone tra i cinquanta e i sessantacinque anni che non parlavano genovese per la paura di ‘annacquare’ la lingua e parlare male sia il genovese sia l’italiano. Il problema dei ragazzini di oggi è che, anche se ne trovi uno che parla il dialetto, non sa con chi parlare, soprattutto a scuola”.
Che mestiere avrebbe fatto Gilberto Volpara se non fosse diventato un giornalista?
“Ho sempre detto che non avrei potuto fare altro mestiere che questo, quindi fare il giornalista è il mestiere che ho sempre voluto fare sin da bambino. Mi sento un privilegiato. Ci sono state alcune volte in cui avrei potuto fare questo mestiere fuori da questa città, da questa regione, ma non me ne sono mai voluto andare: alla Liguria devo tutto e per nulla al mondo la lascerei. Se non avessi fatto il giornalista sarei… un giornalista (ride). Paradossalmente, spesso mi invitano nelle scuole a parlare di comunicazione e giornalismo e dico ai ragazzi delle medie ‘finché potete, cambiate lavoro, non mettetevi in testa di fare i cronisti. Oppure, fatelo. È il mestiere più bello del mondo ma sappiate che non si guadagna tanto da diventare ricchi, ma se va bene abbastanza da sopravvivere, si butta via l’orologio e si dimenticano il sabato e la domenica. Se avete una grande passione e curiosità per la notizia fatelo, al netto di questi comandamenti’”.
C’è un luogo in Liguria a cui è particolarmente legato?
“Sono un ligure d’entroterra, credo che questo esca molto forte anche nelle varie trasmissioni. Devo dire, forse con un po’ di partigianeria, i personaggi più schietti, più genuini, li ho sempre trovati nei paesi, dove peraltro la percentuale di persone che parlano in dialetto è più alta. Impossibile quindi non dire ‘entroterra’. Senza nulla togliere alla costa, i paesi dell’entroterra, che ti dica Pentema, Mignanego, dove sono nato e cresciuto, Serra Riccò dove vivo adesso, fa poca differenza, Ma dico l’entroterra tutto, da Sarzana a Ventimiglia”.
Parliamo un po’ di cucina tipica ligure. Focaccia, pesto, brandacujun, pandolce. Qual è il piatto che non puoi fare a meno di consigliare?
“Devo fare una premessa: devo molto a Sergio Rossi, a Franco Bampi, e al mio operatore storico, Massimo Fornasier: a Massimo per le immagini e per come rendere un’immagine video in televisione; a Sergio, che si fa chiamare il ‘cucinosofo’, per la parte culinaria; a Bampi per la parte legata al genovese. In me hanno influito tantissimo e mi hanno insegnato e continuano a insegnarmi molto. Sergio Rossi ripete spesso che non esiste una ricetta assoluta per un piatto: il pesto tu lo fai in un modo, io in un altro e in casa propria ciascuno fa quel che vuole. La cucina genovese, soprattutto nell’entroterra, è fatta nelle case e lì si faceva come si poteva, anche in base alle possibilità economiche. Le regole rigide lasciano il tempo che trovano. Quindi, per rispondere alla domanda, rispondo tutto: dal pesto alla farinata, alla focaccia col formaggio”.
C’è un proverbio tipico o un modo di dire a cui è particolarmente legato?
“Il ‘maniman’ secondo me è una roba che resta. Non è un modo di dire, è un’espressione intraducibile che però è propria dell’essere del genovese. Mario Paternostro ci ha fatto anche un libro su questo vent’anni fa. È proprio l’essenza della genovesità”.