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Attualità | 24 febbraio 2023, 07:28

Un anno di guerra, il cappellano della comunità ucraina: "Portiamo via le armi, ma togliere la spada a chi si difende significa lasciarlo morire" (Video)

La vita di padre Vitaly Tarasenko è cambiata in una notte, "Con la guerra ho capito che non avrei potuto essere un semplice sacerdote"

Un anno di guerra, il cappellano della comunità ucraina: "Portiamo via le armi, ma togliere la spada a chi si difende significa lasciarlo morire" (Video)

Dobbiamo togliere le armi dall'Ucraina, ma togliere la spada a chi si difende significa lasciarlo morire”. Lo dice come uomo di chiesa e di pace Vitaly Tarasenko, il cappellano della comunità ucraina genovese a un anno dall'invasione russa e del conseguente scoppio del conflitto. Nel mondo si alzano sempre di più le voci critiche alla possibilità di inviare nuove armi all'Ucraina per evitare il rischio che la guerra, che ha già provocato migliaia di vittime, vada avanti.

L'Ucraina è un paese di pace, - racconta - la Russia è stato il primo paese a portare così tante armi in Ucraina che vuole essere un paese pacifico. Quando la Russia porterà via le armi, i missili, il ferro di morte, la guerra potrà cessare. È inutile cercare una giustificazione sul perché vengono inviati i missili in Ucraina, bisogna vedere le persone, le città distrutte, tutto il disastro disumano. Lasciare gli ucraini senza difesa vuol dire condannarli a un genocidio, diciamolo chiaramente. Le persone muoiono per fame, freddo, ma prima di tutto per le armi mandate dalla Russia, questa è una tragedia dell'umanità. Il piano di pace è molto semplice: ogni militare in Ucraina deve sapere che lo aspetta la propria famiglia, sia i militari ucraini che quelli russi”.

Il 24 febbraio dello scorso anno la vita di padre Vitaly è cambiata in una notte. Dal suo paese arrivavano notizie devastanti dei bombardamenti russi. A Genova nel giro di pochi giorni sono arrivati i primi profughi, donne e bambini che hanno trovato nella comunità ucraina e nella chiesa di Santo Stefano un riparo e un conforto.

Prima della guerra ero un semplice cappellano per gli immigrati che avevano bisogno di un'assistenza spirituale. La guerra ha cambiato tutto nella mia vita familiare, dovevamo aprirci alle persone sconosciute che bussavano alla porta improvvisamente e chiedevano aiuto. Ho capito che non avrei potuto fare solo il sacerdote, ma che avrei dovuto adoperarmi per cercare aiuti pratici. Ho imparato tanto, ho conosciuto tante persone, ho scoperto le mie capacità personali che non sapevo di avere. Quest'esperienza mi dà il senso profondo del mio credo di vita, mai sentirsi soli, un mantra che ho gridato insieme alla comunità e dopo un anno posso confermarlo”.

Il cappellano non dimentica la solidarietà e l'abbraccio ricevuti da Genova, i cittadini e le istituzioni.

Ho visto un'altra città, i genovesi al primo impatto sembrano un po' freddi, ma quando si tratta di fare una cosa precisa, chiara e soprattutto utile per tutti, sono in prima linea e non ci pensano due volte. L'ultimo esempio concreto in occasione della richiesta da parte della Caritas di Odessa di inviare vestiti caldi per permettere agli ucraini di attraversare l'inverno, in tre giorni abbiamo riempito un camion che sicuramente sono serviti per le persone che soffrono per la mancanza di riscaldamento. Un altro piccolo gesto, che però può salvare le vite è l'iniziativa delle candele 'magiche': un barattolo riempito con cartone e cera può scaldare una famiglia in Ucraina per sei, sette ore. Gli scout e le associazioni portano i barattoli con la cera che noi mandiamo in Ucraina tutte le settimane”.

Sono due i momenti più difficili che padre Vitaly ricorda negli ultimi 365 giorni. “Il primo la notte del 24 febbraio, uno schock drammatico quello di vivere la guerra a distanza, io non sentivo i missili, non sentivo le esplosioni, ma dentro di me c'era qualcosa pronto a esplodere, la testa ragionava su quello che succedeva, ma l'incapacità di agire mi faceva pensare di essere inutile. Il secondo quando non si capiva come aiutare gli ucraini, c'era chi pensava di prendere tempo, per me è stato difficile capire questo comportamento. Lì sono crollato dal punto di vista emotivo, vedevo le persone bisognose e qualcuno voleva aspettare, ma bisognava dare da mangiare, da dormire, agire, l'espressione 'vediamo' provoca un dolore forte, ma c'è un'altra bella espressione: 'pensiamoci'”. 

Francesco Li Noce

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