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Attualità | 14 gennaio 2023, 09:30

La psicoterapia oggi: ci fidiamo ancora della relazione con l'altro?

Sull'onda dell'emergenza approdano agli studi professionali svariate tipologie di pazienti, tutti molto sofferenti normalmente, ma poi chi davvero resta, chi riesce davvero a creare e stare in una relazione, è una minoranza

La psicoterapia oggi: ci fidiamo ancora della relazione con l'altro?

Dal confronto con molti colleghi, sono arrivata ad alcune considerazioni che riguardano la psicoterapia e il modo di viverla dall'utenza di oggi. Le cose sono molto cambiate dai periodi storici precedenti. Sarà la pandemia davvero ad aver modificato i nostri codici relazionali? Oppure alcuni tratti difficili nell'entrare in relazione ci sono stati sempre e adesso è solo più facile individuarli?

Insomma, ci fidiamo ancora della relazione, dell'altro?

In partenza la psicoterapia si presenta come un percorso non sempre immediato per tutti: bisogna essere consapevoli di un malessere, sentirlo, viverlo, ed essere disponibili a legarsi a un'altra persona per risolverlo. Essere disposti insomma, a fidarsi della mente di qualcun'altro che aiuti a mettere in ordine la propria. Poi bisogna avere pazienza, il percorso psicoterapeutico è lungo, inevitabilmente: la nostra mente ha funzionato in un modo da farci patire e stare male per anni, fino a che almeno non ne prendiamo consapevolezza, di quel dolore lì. E allora la terapia deve avere altrettanto spazio e tempo per fare evolvere in modalità diverse il nostro funzionamento. Non certo gli anni che abbiamo passato con noi stessi fino a quel momento, ma nemmeno un paio.

Normalmente, nei primi due anni di percorso, per chi vuole agire davvero a lungo termine e con strategie che affondino bene le loro radici nella nostra consapevolezza, si crea la relazione, si stabilisce in modo solido. Da lì si parte davvero per lavorare. Non che questo significhi che nei primi due anni non cambi nulla, nella persona, le cose cambiano eccome. Ma sono primi spunti di movimenti evolutivi, che attendono ancora che la fiducia e il legame si creino, tra paziente e terapeuta.

Per tornare ai giorni d'oggi e al confronto che spesso ho con svariati colleghi, la difficoltà delle persone non sembra riguardare tanto il riconoscimento di un malessere e quindi di avere bisogno, perché questo è un aspetto invece abbastanza sviluppato: la cura della persona ha un accento forte addosso, di questi tempi. Si rileva piuttosto, (non in tutti i casi, sottolineo) ,una difficoltà a legarsi. A legarsi ad una mente altra che aiuti e sostenga il lavoro interno. Sull'onda dell'emergenza infatti, approdano agli studi professionali svariate tipologie di pazienti, tutti molto sofferenti normalmente, ma poi chi davvero resta, chi riesce davvero a creare e stare in una relazione, è una minoranza

I cambiamenti devono essere immediati, spesso questa è la richiesta, e già tre mesi di sedute o sei o un anno, sembrano un obiettivo di benessere raggiunto. Non appena, cioè, si tira il fiato si ha l'illusione di aver lavorato, di stare bene. Una risposta potrebbe essere che molte persone non abbiano abbastanza sviluppata la percezione di loro stesse come esseri complessi, che risolvano quindi uno strato in superficie, ma che non siano del tutto consapevoli di averne altri sottostanti, profondamente dolenti. Ma per rimanere dopo un primo periodo di lavoro e al primo benessere raggiunto, ci vuole fiducia, nel terapeuta, cioè nell'altro, ma anche in sé stessi. Fiducia che possiamo arrivare a guardarci anche nelle nostre pieghe più nascoste, per scoprirci davvero e per sapere di che pasta siamo fatti.

E così lo psicoterapeuta, se crede nel suo lavoro soprattutto, si può trovare in una posizione scomoda ultimamente, a dover quasi battagliare alle volte, per lavorare ad un livello più profondo, più interno.

La psicoterapia rischia di diventare sempre di più un lavoro che funziona quando si limita ad essere un lavoro emergenziale. Perché ci fermiamo solo di fronte all'emergenza? Forse perché il tempo è prezioso, tutto da sfruttareper guardare cosa c'è fuori dalla stanza e per sperimentarsi, ancora e ancora. Appena si è recuperato l'equilibrio, pure zoppicanti e ancora malconci si tende a uscire dal pronto soccorso terapeutico. Questo è inutile dire che aiuta poco, se mai nel tempo acuisce la fragilità percepita perché il malessere ritornerà facilmente con un altro sintomo, con un altro nome. E le persone rischieranno di sentirsi ancora più abbattute.

A mio parere la difficoltà di questi tempi frenetici, veloci e quasi depersonalizzati potrebbe essere l'isolamento che progredisce, che fa stare sempre a più a distanza e rende sempre più incapaci di creare legami affidabili, di averne voglia, di crederci. 

La domanda che con molti colleghi ci facciamo è se la psicoterapia riuscirà ad aiutare ancora, e in quali dimensioni, le persone. Se la relazione, a livello più ampio, riprenderà il suo vigore e il suo spazio, non solo nell'emergenza, e se la nostra capacità di starci dentro si rafforzerà. 

In ogni caso, come si dice spesso nel nostro mestiere, "ci lavoriamo".

Cristina Fregara

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