C’è una pandemia destinata a durare nel tempo, anche quando sarà terminata quella del Covid-19. Una pandemia per la quale non esiste alcun vaccino e la cui cura appare assai complessa: l’inquinamento provocato dalla plastica.
I due aspetti sono strettamente correlati, a ben vedere: perché proprio in un momento storico in cui ci si avviava verso una graduale riduzione della plastica, proprio quando s’iniziava a legiferare in maniera seria e concreta contro i prodotti monouso, proprio quando il ‘plastic-free’ non era solamente uno slogan ma cominciava a diventare per davvero un comportamento virtuoso, proprio a questo punto l’utilizzo della plastica è tornato prepotentemente alla ribalta, come unica via di fronte alla sempre più rapida diffusione del virus.
E questo perché la plastica, e proprio gli oggetti monouso - a cominciare dagli ormai famosi Dpi, ovvero i dispositivi per la protezione individuale - sono visti come uno degli aspetti principali, e obbligatori, per prevenire il contagio. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria sono stati prodotti milioni e milioni di mascherine, milioni di visiere, milioni di guanti, di tute per il personale medico e infermieristico, di contenitori per gli alimenti, per gli imballaggi, per i trasporti: un incremento pazzesco, esorbitante, una quantità di plastica dirompente e che difficilmente l’ambiente riuscirà a sostenere, se non verrà trattata correttamente.
L’allarme è stato lanciato già mesi fa dalle principali associazioni ambientaliste: è un tema che, oggi come oggi, passa giocoforza in secondo piano, ma che rientra a pienissimo titolo tra i ‘danni collaterali’ della pandemia. L’Istituto Oikos, tra le principali e più note organizzazioni non-profit impegnate in Europa nella tutela della biodiversità e per la diffusione di modelli di vita più sostenibili ricorda in un suo studio che “dal 2021 saranno banditi piatti, posate e cannucce di plastica. Il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato infatti lo stop a stoviglie monouso (Direttiva UE 2019/904) con lo scopo di promuovere un approccio circolare ai consumi, privilegiando prodotti riutilizzabili, sostenibili e non tossici, anziché prodotti monouso. Questa direttiva però, che ha mosso i suoi primi passi nel 2018, non ha fatto i conti con la pandemia da Sars-CoV-2”.
Nella ricerca, condotta in piena epoca pandemica, si fa notare come “il 2021 sarebbe potuto diventare l’anno del plastic-free e segnare una svolta, non solo nell’approccio all’economia circolare e ai nostri stili di vita, ma anche nella tutela ambientale. Adesso però sembra che affidare la nostra salute a materiali plastici monouso sia l’unica difesa dal virus oggi possibile. Non solo guanti, mascherine, visiere, ma camici in Tnt, divisori in plexiglas, imballaggi e stoviglie: alla ricerca della totale sicurezza sanitaria ci stiamo, ancora una volta, ricoprendo di rifiuti”.
Una stima preliminare del Politecnico di Torino prevede che in Italia saranno utilizzati fino a un miliardo di mascherine usa e getta e circa cinquecento milioni di guanti al mese, con una produzione di rifiuti di circa settantamila tonnellate annue.
I dispositivi di protezione individuale (Dpi) sono costituiti principalmente da materiale composito e quindi non riciclabile e sono potenzialmente infetti: non si possono quindi differenziare né riciclare. La loro vita è brevissima, il loro destino è quello di diventare rifiuti in pochissimo tempo e l’uso massivo che ne stiamo facendo trasforma quei numeri in una potenziale minaccia ecologica.
“In quest’ottica - osserva l’Istituto Oikos - il corretto smaltimento diventa una priorità. È necessario dunque fare una distinzione tra i rifiuti sanitari, provenienti dagli ospedali, e quelli utilizzati dalla popolazione generica. I rifiuti come quelli derivanti dai dispositivi per la gestione dei pazienti Covid-19 sono considerati rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo e devono essere smaltiti mediante termodistruzione in impianti autorizzati. Le mascherine e i guanti a cui ricorre la popolazione vengono invece considerati rifiuti urbani e l’Istituto Superiore della Sanità suggerisce di smaltirli nei contenitori destinati all’indifferenziato. Bisogna però fare un’ulteriore precisazione: in caso di positività a Sars-CoV-2 e isolamento presso il proprio domicilio l’Iss consiglia di non fare la raccolta differenziata, ma gettare tutti i rifiuti (mascherine e guanti compresi), in due o tre sacchi uno dentro l’altro, nell’indifferenziata”.
L’impatto ambientale che si cela dietro a questi numeri e a questa nuova quotidianità è reso ancora più grave dall’abbandono, più o meno consapevole, dei rifiuti nell’ambiente: guanti e mascherine ormai si trovano ovunque nelle strade delle nostre città, pronti a essere trasportati dal vento e dalla pioggia verso tombini e corsi d’acqua, tutti con un’unica destinazione finale: il mare. E lì resteranno, insieme agli altri otto milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che ogni anno vi finiscono.
Ma come si può affrontare questa crisi? È essenziale, secondo gli esperti, riprogrammare la catena dell’uso e dello smaltimento dei Dpi in un’ottica di sostenibilità: ad esempio con mascherine riutilizzabili, almeno per quelle definite di ‘comunità’ (impiego non sanitario), pensare a contenitori appositi da installare nelle aree pubbliche e produrre dispositivi in polimeri unici e singoli componenti che non vadano smaltiti come rifiuti sanitari, ma che possano essere più facilmente smaltiti o riciclati.
L’altro aspetto, emerso negli ultimi mesi, è che, essendo crollato il prezzo del petrolio, costa molto di meno produrre plastica nuova rispetto a riutilizzare plastica riciclata. Il che innesca un’altra ‘bomba’ ambientale.
Di questi temi parla Enrico Lastrico, tra i principali esperti, sul nostro territorio, per quanto riguarda l’analisi, la progettazione, la gestione e la commercializzazione di servizi ambientali e di igiene urbana (e che ha già contribuito sulla nostra testata con alcuni preziosi interventi).
“Pensavamo di produrre meno plastica e ci eravamo posti quest’obiettivo virtuoso - commenta Lastrico - Poi, a causa della pandemia, abbiamo finito per produrne di più e adesso, in effetti, il problema è rappresentato dallo smaltimento”.
Sulla diffusione della plastica, secondo Lastrico, “bisogna partire da lontano. Ha avuto un successo enorme, sin dalla sua scoperta, in quanto è un materiale con moltissime qualità: è leggera, è resistente agli acidi, è infrangibile e costa poco. Oggi vengono prodotti ben quattordici tipi di plastica e sei tipi di resina. Con la plastica facciamo di tutto ma, come noto, è un materiale che si degrada assai difficilmente e con tempi lunghissimi. Uno dei problemi principali sta appunto nel monouso, ovvero in quella plastica che viene usata per pochissimo tempo e poi viene subito gettata via. E proprio questa ha avuto un aumento vertiginoso in quest’epoca di emergenza sanitaria”.
La gestione è un tema assai articolato. “È vero che i rifiuti sanitari vanno trattati solamente negli inceneritori, ma restano poi tutti i rifiuti domestici. Mascherine e altri Dpi vanno messi dentro due o tre sacchetti e gettati nell’indifferenziato, come da indicazioni, ma è qui che si apre tutto il processo del recupero e della gestione, nel quale non può venir meno alcun tassello”.Il nodo gestione è fondamentale, l’unica via per tutelare l’ambiente: “Ogni elemento deve fare la propria parte. Tutti gli strumenti dovrebbero far parte di un’unica grande rete. La raccolta differenziata spinta, la separazione della frazione umida che può essere riciclata al cento per cento, la gestione dell’indifferenziato in discarica, l’incenerimento di una sua parte, la gestione finali degli inerti prodotti dall’inceneritore. Non si può togliere un solo elemento, altrimenti il circolo non è virtuoso”.
Lastrico fa presente che “la plastica non sparisce mai dall’ambiente. Quella che finisce nell’inceneritore, si inertizza, ma poi impiega comunque centinaia di anni a degradarsi. Quanto a quella che finisce nella raccolta indifferenziata, viene trattata in discarica, viene compostata, ma a suo modo termina comunque in blocchi di rifiuti. Per questo bisognerebbe produrne meno. Nel 1964, in Italia, si producevano 15 milioni di tonnellate di plastica. In anni recenti, ne sono stati prodotti ben 350 milioni all’anno. È stato calcolato che, in dodici mesi, ognuno di noi crea 450 chilogrammi di rifiuti, di cui 70 chilogrammi sono di plastica. Sono cifre che danno bene le proporzioni del fenomeno. Se la plastica in discarica non viene trattata e gestita correttamente, rischia di finire in mare. Purtroppo, è stato calcolato che, se andremo avanti così, nel 2050 il peso della plastica in mare arriverà a pareggiare il peso di tutti i pesci che sono nel mare”.
Si può e si deve fare di più, insomma. Quando sarà terminata l’emergenza sanitaria, e si spera davvero il prima possibile, bisogna tornare a solcare le rotte tracciate prima del Covid: differenziata spinta, maggiore utilizzo di materiali alternativi, come il vetro, minore utilizzo delle plastiche monouso.
“Non ci si può affidare solamente agli inceneritori - sostiene Lastrico - ma ci dev’essere un sistema integrato che parta dalla comunicazione alla cittadinanza e dalle buone pratiche quotidiane. Ora ci abbiamo dovuto rinunciare, obtorto collo. Ma non potrà essere così per sempre”.
Una mascherina che finisce in mare impiega 450 anni per smaltirsi. Migliaia, milioni di mascherine che finiscono nel mare sarebbero l’ennesima catastrofe ambientale. Quando si getta via, è giusto e doveroso pensare a dove e a come si getta via. È una questione di sopravvivenza che va ben oltre il Covid.