Rubriche - 24 ottobre 2020, 14:00

"L’omicidio del trapano" di vico Indoratori, un delitto avvolto nel mistero del centro storico di Genova

Era il 1995 quando fu trovato il corpo della donna, le indagini furono offuscate da suicidi e lettere fino ad una confessione anonima del killer nove anni dopo

Genova, 6 settembre 1995. Nelle redazioni si sbrigano i primi giri di cronaca, Liguria Emergenza (118) e i carabinieri informano che qualcosa è successo in vico Indoratori nel centro storico genovese. I primi giornalisti di cronaca nera, accorrono e trovano due agenti e un’auto dei carabinieri a presidiare il vicolo, e fu chiaro sin da subito che si trattasse di un omicidio. Tuttavia, prima di raccontare questa storia, va fatta una premessa: useremo nomi di fantasia per i protagonisti di questa storia.

La graziosa e minuta Ariella, infermiera dell'ospedale San Martino di Genova, è la vittima della disgrazia, a causa di un cattivo affare del marito, che alla fine degli anni ’80 abbandonò il suo lavoro di magazziniere per prendere un bar, pur senza la disponibilità economica necessaria. Dunque per ovviare al problema chiese un prestito e finì nelle mani di persone senza scrupoli. L’uomo morì d’infarto nel 1990, così la donna con i due figli dovettero traslocare dalla loro casa di corso Gastaldi per andare a vivere in un appartamento ammobiliato in via Monticelli.

Ariella, costretta ad abbandonare il lavoro per via di un compenso non più sufficiente ad andare avanti, decise di prostituirsi per accumulare il denaro utile a pagare i debiti del marito defunto. Non disse la verità ai suoi due figli ormai ventenni, per evitare di essere giudicata, così con la scusa di uscire per fare l’infermiera a domicilio, si recava invece ogni mattina in vico Indoratori.

Cinque anni dopo, il suo corpo venne ritrovato orrendamente ferito dalla punta di un trapano conficcata in gola, Ariella non è morta subito ma ha agonizzato per ore e la sua morte risale ad almeno un giorno prima del ritrovamento. Fu uno dei due figli a dare l’allarme, che non vedendo la madre da diversi giorni, telefonò al numero della signora che Ariella avrebbe accudito, ma in realtà questa era la copertura di Ariella. Dall’altro capo del telefono rispose invece la proprietaria del locale, che scese a controllare e trovò il cadavere.

Il locale era diviso in due e caratterizzato da un arredamento spoglio: un tavolino, una televisione con il videoregistratore, due sedie e il letto, e molto sangue dappertutto. L’assassino, dopo aver ucciso la donna si sarebbe lavato le mani, quindi avrebbe rovistato nella borsetta di Ariella e poi con grande freddezza sarebbe uscito, chiudendosi dietro la porta e tirando giù la saracinesca.

I carabinieri indagarono e trovarono tracce organiche sotto le unghie della donna, così avviarono una ricerca capillare tra i clienti di Ariella e individuarono due persone: un certo Silvio, ex collega del S. Martino, che ogni tanto accompagnava Ariella a lavorare, ma con un alibi di ferro. Infine un cliente “affezionato” che attirava parecchio le attenzioni degli inquirenti, emerse che era il proprietario dell’arma del delitto e i suoi alibi rispetto a quella sera non erano così solidi. L’uomo avrebbe realizzato dei lavori nel piccolo locale dove lavorava Ariella, tra cui l’imbiancamento dei muri.

Aldo, elettricista sposato con due figli, si trovò improvvisamente indagato e scaraventato nelle prime pagine dei giornali come possibile omicida. Per lui si prospettava il carcere, un’ipotesi che lo sconvolse. Il tardo pomeriggio del 14 settembre, quando uscì sconvolto dall’ufficio del legale, s’incamminò sulla sopraelevata e intorno alle 20 o pochi minuti più tardi, all’altezza dell’elicoidale si lanciò nel vuoto. Lasciò una serie di messaggi in cui dichiarò la sua innocenza e salutò i propri cari.

La tragica beffa arrivò dopo una settimana: il 22 settembre gli esami del DNA che confrontarono quello di Aldo con le tracce trovate nell’appartamento accertarono la completa innocenza dell’elettricista. Qualche mese dopo un altro episodio tragico: la proprietaria del locale, ex prostituta, si suicidò. Gli inquirenti a questo punto finirono in un vicolo cieco, potendo solo ipotizzare. Un cliente in preda a un raptus omicida? Forse potrebbe essere stata l’ipotesi più plausibile dopo la lettera che arrivò nove anni dopo in Procura nell'ufficio di Patrizia Petruzziello: “Anni fa ho commesso un omicidio mai venuto alla luce. O meglio, non sono mai stato preso. Sono io che ho ucciso Ariella, quella di vico Indoratori. Sono il mostro del trapano, non sono mai stato preso, ho paura sempre di finire in galera”, scrisse al procuratore come in una confessione e rivelò particolari che solo l'assassino avrebbe potuto conoscere, mentre la sua identità restò e resta tutt'ora un mistero.

 

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Dario Rigliaco