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Attualità | 17 aprile 2020, 17:00

Coronavirus: "Emergency On Planet Earth"

Ad oggi, 17 aprile 2020, qual è la situazione sul pianeta Terra?

Coronavirus: "Emergency On Planet Earth"

Il titolo del post odierno, che fotografa perfettamente il delicatissimo momento che sta vivendo il nostro Pianeta, trae spunto (Egomet non si smentisce nemmeno oggi) dalla canzone che rese famosa una delle mie band musicali preferite ossia i Jamiroquai. Correva l’anno 1993 e, a parte forse pochi studiosi e scienziati, quasi nessuno avrebbe immaginato la drammatica situazione in cui gran parte dell’Umanità si sarebbe ritrovata 27 anni dopo a causa del “Coronavirus”.

Ad oggi, 17 aprile 2020, qual è la situazione sul pianeta Terra? No, non intendo citare numeri, statistiche e analisi medico-scientifiche ma faccio riferimento molto più semplicemente a quello che è uno dei focus del dibattito in corso a vari livelli (politico, economico, mediatico): siamo totalmente “immersi” infatti (sicuramente in Italia ma un po’ in tutta Europa) nel convulso e, a tratti stucchevole, confronto incentrato sulla definizione dei tempi e delle modalità di avvio della c.d. “Fase 2”. Al netto della ridda di opinioni, di polemiche e di prese di posizioni più o meno ufficiali da parte di politici e di rappresentanti delle imprese e delle categorie sindacali, credo che un punto fermo sia il fatto che il tragitto che porterà noi italiani, così come milioni di altri abitanti della Terra, a vivere nuovamente in una situazione non emergenziale non sarà assolutamente breve. Infatti penso che sia indiscutibile che in assenza di un vaccino la sicurezza assoluta nei confronti di questo virus non ci sarà e quindi l’uscita dal lockdown non potrà avvenire se non in modo molto graduale ed estremamente attento rispettando le distanze di sicurezza, dotandosi del materiale di protezione (in primis le mascherine chirurgiche), lavandosi accuratamente e frequentemente le mani, etc.

Volendo soffermarmi su alcune considerazioni di carattere più generale penso che la vicenda del Covid19 dovrà indurre a fare profonde ed articolate riflessioni sulla colpevole impreparazione che molti Stati e governi hanno dimostrato in questi mesi. Uso il termine “colpevole” perché un dato oggettivamente acclarato è che già da alcuni anni gli studi medico-scientifici elaborati nei centri di ricerca più avanzati avevano evidenziato che uno dei fenomeni che certamente avrebbe potuto impattare pesantemente sulla popolazione mondiale era proprio quello dei virus e delle pandemie, tanto da indurre l’O.M.S. a definire dei protocolli che ogni Stato avrebbe dovuto adottare concretamente. E qui nasce il problema, come spesso accade in casi simili: un conto è aderire formalmente a Trattati e a Procedure definiti da Organismi Internazionali, un altro è renderli operativi ed efficaci da parte dei singoli Stati nell’interesse dei propri cittadini. Ciò che è scritto sulla carta conta fino ad un certo punto, anzi, può risultare del tutto insignificante se poi non si agisce per far sì che a livello istituzionale, siano adottate i necessari provvedimenti attuativi che, in un quadro di reale e concreta interazione tra Governo centrale ed Enti locali (Regioni, Comuni), facciano sì che di fronte a tali situazioni non ci si dimostri del tutto impreparati. E ciò implica che a monte si facciano i doverosi ed indispensabili investimenti per mettere tempestivamente in atto le misure di intervento più efficaci (il fatto che in Italia, a differenza della Germania dove sono disponibili 29,2 posti effettivamente utilizzabili per la terapia intensiva ogni 100mila abitanti ve ne siano 12,5, ha avuto come conseguenza il fatto che l’impatto sulla popolazione e sul personale medico sia stato decisamente pesante per non dire drammatico) ma che nel contempo sensibilizzino i cittadini sulla concreta pericolosità di fenomeni del genere e sulle regole di condotta basilari da seguire laddove insorgessero. Sia chiaro, io per primo pensavo che fenomeni del genere, nel 2020, non potessero essere ancora così impattanti per il genere umano e quindi non voglio vestire i panni del “saccentuolo pressapochista” (categoria che, forse ricorderete, troviamo anche tra i pendolari; vedi il post del 13 dicembre 2019: “Uno, nessuno, centomila. Facciamo quattrocento, circa”), figura che in queste settimane incrociamo soprattutto sulla Rete: tutti dotati di buon senso e di ragionevolezza, a posteriori ovviamente, che si riempiono la bocca di discorsi che, come direbbe il compianto ex allenatore del Genoa Franco Scoglio, sono formulati “ad minchiam”. Ma ciò non toglie il fatto che sono comunque le Istituzioni pubbliche a doversi far carico non solo di predisporre le risorse, umane ed economiche, per affrontare situazioni del genere ma altresì di educare la popolazione su come convivere con esse.

Altro aspetto che mi lascia a dir poco perplesso è il fatto che molti politici e molti esponenti dei settori economico produttivi in questi ultimi giorni si riempiono la bocca di parole come “ avviamo subito la Fase 2”, “torniamo alla normalità”, etc come se il solo evocare questi scenari non solo rasserenanti ma, lo ribadisco, indispensabili per non fare sprofondare l’Italia in una crisi economica e sociale drammatica, sia sufficiente per poter effettivamente ripartire. Anche su questo profilo mi astengo dal pronunciarmi sulle singole sterili polemiche che si rincorrono soprattutto sui media ma resta il fatto che la necessaria ripresa non può prescindere da una approfondita ed attenta analisi di quello che vorrà dire riprendere gradualmente le attività lavorative convivendo ancora per molti mesi con il virus. Va bene parlare di messa in sicurezza dei posti di lavoro ma per raggiungerli i comuni lavoratori (non parlo quindi dei top manager o dei grandi liberi professionisti) non possono fare a meno di utilizzare i mezzi di trasporto pubblico (bus, metropolitane, treni): molti non hanno ancora realizzato che un servizio pubblico dei trasporti necessariamente “contingentato” per un bel po’ di tempo determinerà la necessità che si cambino anche alcuni parametri standard di molte attività lavorative. In primis andranno scalati gli orari di accesso perché l’uniforme concentrazione nelle stesse fasce orarie di migliaia di persone costituirà uno dei fattori di rischio maggiori. E qui la domanda sorge inevitabile: il mondo attuale delle aziende italiane è nelle condizioni, culturali ed organizzative, per sapersi rimodulare ed adattare a questa situazione senza pregiudicare da un lato la salute dei lavoratori e dall’altra la capacità di produrre risultati economico-finanziari di un certo livello? Personalmente auspico solo che la Task Force messa in campo dal Governo sotto la regia del manager Vittorio Colao sappia veramente individuare e suggerire gli interventi più opportuni per sciogliere questi nodi e trovare le soluzioni migliori e più efficaci. E poi si dovrà continuare ad investire sullo smartworking che io, come tantissimi altri lavoratori, ho potuto sperimentare in queste settimane: è una modalità lavorativa molto efficace che, pur con i suoi limiti, è in grado di far allentare la pressione dei flussi verso i luoghi di lavoro.

Approssimandosi la stagione balneare il mio pensiero non può non andare poi a quei posti che abitualmente frequento durante i mesi estivi (ma non solo): concepire un accesso “contingentato” nelle spiagge e negli stabilimenti balneari ha in sé qualcosa che evoca in modo inquietante certe situazioni che trovo più consone a quei Paesi governati da regimi dittatoriali, tipo la Corea del Nord di Kim Jong-un che non a Paesi dove la libertà di movimento è uno dei diritti fondamentali. Che le sedie a sdraio ed i lettini siano distanziati maggiormente ci sta, anzi forse potrebbe essere in prospettiva un fattore che renderà anche più gradevole trascorrere una giornata in spiaggia senza dover essere, come in non pochi casi accade, appiccicati gli agli altri; ma che per andare a fare una nuotata in mare o sotto la doccia o a prendere una bibita al chiosco ci si debba mettere incolonnati come in una sorta di campo di prigionia all’aperto, rende sempre più probabile – sempre ammesso che gli stabilimenti balneari effettivamente possano riaprire – che la prossima estate verrà vissuta dal sottoscritto, come immagino da tantissime altre persone, in modo più “discreto”. Ma se ciò personalmente lo vivo non certamente in modo positivo ma comunque facendomene una ragione – a differenza di quella signora di 60 anni di Monza che alla vigilia di Pasqua ha raggiunto la sua seconda casa a Santa Margherita Ligure per recarsi in spiaggia, incurante dei divieti e delle restrizioni per fronteggiare il Coronavirus, dichiarando ai Carabinieri che l’hanno multata “Non riesco a stare senza prendere la tintarella” (!!) – posso immaginare quale sia lo stato d’animo dei tanti operatori turistici, gestori di stabilimenti balneari e lavoratori stagionali che operano nel settore che tradizionalmente traina l’economia ligure, appunto quello del turismo, e per i quali si prospettano periodi assolutamente negativi, da ogni punto di vista.

In chiusura riformulo l’auspicio, formulato in uno dei miei ultimi post, che una vicenda drammatica come questa del Coronavirus insegni veramente qualcosa all’umanità intera da un lato facendo crescere la consapevolezza della nostra fragilità e dall’altro facendoci sentire veramente ed autenticamente più solidali gli uni con gli altri, e a suffragio di questa mia speranza cito quanto dichiarato dall’allenatore della squadra di calcio del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che da mesi combatte duramente contro la leucemia “Dopo la malattia ho detto spesso che ogni cosa ha riacquistato per me valore e mi sembra bellissima: una boccata d’aria, una doccia con l’acqua che ti scende sul viso, un panorama. Io ormai apprezzo ogni singolo momento della mia vita”.



Egomet

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