Speciale Coronavirus - 08 aprile 2020, 15:17

Coronavirus, un genovese a Londra: "Gli italiani qui hanno capito la gravità della situazione prima degli inglesi"

Come stanno vivendo gli italiani a Londra in tempo di coronavirus e lockdown? Lo abbiamo chiesto a un genovese

Mentre il premier inglese Boris Johnson, positivo al coronavirus, si è aggravato nelle ultime ed è ricoverato in terapia intensiva, in una Gran Bretagna che è salita al quarto posto in Europa per numero di contagi e che sta vivendo le ore più drammatiche, con incremento giornaliero di 786 morti per un totale di 6.159 - tanto che la Regina Elisabetta, per la quinta volta in 68 anni di regno, ha parlato alla nazione due giorni fa - abbiamo contattato un genovese che vive a nord di Londra, per capire quali sono le sensazioni e i timori degli italiani che si trovano lì. Si chiama Mario, ha 36 anni, si è trasferito nel Regno Unito cinque anni fa e lavora per un’azienda internazionale specializzata in sottotitoli per film.

Come stai vivendo la quarantena? Fai smartworking

In realtà lavoravo da casa già da prima della quarantena, facendo normalmente smartworking due volte alla settimana. Quando ci sono stati i primi allarmi l’azienda ci ha voluti tenere a casa una settimana prima del lockdown deciso dal governo britannico, quindi vivo così da quasi un mese.

Che atmosfera si respira?

Non ho molti contatti con l’esterno, per cui le cose le apprendo dai giornali come tutti. Direi, però, che qui, a differenza di quanto accade in Italia, ci sono divieti meno rigorosi: è concessa un’uscita al giorno, oltre che per fare la spesa, per passeggiare o correre, anche se il consiglio è di stare vicino a casa. Io infatti mi limito a uscire restando qua nei dintorni. Inoltre la maggior parte dei mezzi pubblici è ferma, tranne la metropolitana, che serva al trasporto di chi va a lavorare, come medici e infermieri; all’inizio avevano ridotto il numero delle corse, ma, visto il sovraffollamento, le hanno ripristinate.

Ci sono controlli da parte della polizia?

I controlli dicono che ci sono, ma ovviamente non possono controllare che davvero si esca una volta al giorno: è tutto lasciato al buon senso. Diciamo che si fidano e che non esistono documenti di autocertificazione.

Le protezioni per uscire, come le mascherine, si trovano?

Anche qui, come in Italia, sono difficili da reperire: io, per esempio, non ne ho.

Italiani e inglesi stanno prendendo in modo diverso la situazione?

Ora no, ma inizialmente direi di sì, perché gli italiani hanno reagito con più prontezza, stando a casa già prima del lockdown, perché ci arrivavano le notizie dall’Italia, dai parenti e dai giornali, visto che il processo di diffusione del virus era più avanti rispetto a qui. Questo ci ha permesso di avere una visione più realistica del problema rispetto agli inglesi, che, hanno capito dopo.

Come ti sembra il sistema sanitario inglese, anche a confronto con quello italiano? Sta reggendo?

Per fortuna non ho esperienza diretta per quanto riguarda quest’emergenza, ma so che il sistema sanitario britannico è molto meno strutturato di quello italiano, anche a causa dei pesanti tagli che sono stati fatti nel tempo dal governo conservatore, che è in carica ininterrottamente da nove anni. Questo, per esempio, ha comportato una riduzione delle assunzioni dei medici di base: lo so per esperienza personale. Per quanto riguarda, invece, il coronavirus, i reparti interessati, come la terapia intensiva, non sono attrezzati come quelli italiani, il che, chiaramente, è un problema, anche se ancora la sanità non è al collasso. Inoltre la capacità dei test è limitata, così come i posti in ospedale. Insomma, non sarei tranquillissimo se dovessi andarci, ma non lo sarei nemmeno in Italia in questo momento.

Con il Premier Johnson malato ti sembra che gli inglesi si sentano spaesati e che temano di perdere la propria guida?

Purtroppo non ho modo di confrontarmi con molti inglesi, ma sicuramente si tratta di un evento che ha colpito molti.

 

Medea Garrone