Viaggiare tutti i giorni in treno, per almeno quattro ore, per raggiungere il posto di lavoro la mattina e per rientrare a casa la sera non è propriamente una passeggiata di salute: questo aspetto l’ho sottolineato più volte nella rubrica e credo che appaia evidente a tutti (ma se ciò non risultasse sufficientemente chiaro, la foto di Egomet oggi pubblicata è una testimonianza inequivocabile della fatica del pendolarismo...). Il fatto poi che si viaggi, per un tempo decisamente consistente, per andare a lavorare - non per andare in vacanza o comunque per piacere – non fa altro che accentuare quella sensazione di pesantezza che viviamo frequentemente: ciò induce non pochi di noi pendolari a riflettere sul fatto se veramente valga la pena affrontare tali fatiche psico-fisiche quotidiane per “portare a casa la pagnotta” nonché a fare tutta una serie di considerazioni sul senso di una vita così fortemente condizionata da schemi temporali e spaziali molto rigidi e quasi opprimenti.
Fatte queste premesse, si capisce come il titolo del blog odierno sia tutt’altro che provocatorio o scherzoso: infatti parlare di tematiche così delicate così come sono quelle attinenti al mondo del lavoro è tutt’altro che banale e schematizzabile. Io non posseggo le competenze e gli strumenti per fare delle analisi di natura economica, storico-culturale e antropologica, ma ritengo tuttavia – in quanto persona che (fortunatamente) ha un lavoro stabile da anni – di aver maturato una sufficiente esperienza per poter fare delle considerazioni su questa componente così importante della società moderna.
Indiscutibilmente un aspetto che deve essere considerato con particolare attenzione è quello relativo alla crescita esponenziale (avvenuta in pochissimi anni) dell’informatica e della tecnologia in generale, che certamente impatta tutta la nostra vita quotidiana e a maggior ragione quasi tutte le attività lavorative. Proprio il massivo ricorso alla tecnologia amplifica - non sempre in senso positivo, anzi – gli effetti determinati dall’essere costantemente “connessi”, così come ho illustrato nella puntata del 7 febbraio scorso (“To be (Disconnected) or not to be (Disconnected): this is the question”). Per cui se da un lato possono essere sicuramente apprezzati i risvolti positivi determinati dall’ampio utilizzo della tecnologia e dell’informatica nel mondo del lavoro (pensiamo in particolare al ricorso sempre più diffuso da parte delle aziende dello “smart-working), dall’altro è innegabile che in questo modo si rischia di “non staccare mai la spina”. Anche in alcune mie esperienze lavorative del recente passato ho vissuto situazioni al limite della sostenibilità fisica e mentale con comunicazioni via mail chilometriche con i colleghi di ufficio che avvenivano in tarda serata e/o nei week-end: e questo non solo in casi particolari ed eccezionali ma spesso anche in circostanze definiamole “ordinarie” nelle quali non vi era assolutamente alcuna urgenza. E questo modo (a mio avviso assolutamente distorto) di concepire il lavoro e lo spazio che esso deve avere nella nostra quotidianità, induce a porsi la seguente domanda, se volete anche un po’ banale nella sua schematicità ma a mio avviso con una sua profondità, ossia: “Ma si lavora per vivere o si vive per lavorare?”.
A tale proposito torno sulla notizia, risultata essere poi una “bufala”, della quale avevo fatto cenno sempre nella puntata del 7 febbraio scorso ossia quella apparsa nei primi giorni di gennaio secondo cui la prima ministra della Finlandia Sanna Marin avrebbe proposto di ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni e la giornata lavorativa a sei ore anziché otto, a parità di stipendio. Non nascondo che tale notizia - rivelatasi poi, appunto, una fake-news – ha suscitato il mio interesse perché, al netto delle doverose ed opportune considerazioni che economisti e commentatori hanno fatto successivamente e che hanno ribadito la oggettiva inattuabilità di un’ipotesi del genere, mi ha dato lo spunto per riflettere come nella società contemporanea il lavoro “a tutti i costi” rappresenti una sorta di totem tanto da divenire il focus di tutta la nostra esistenza quotidiana.
Se è vero che avere un lavoro è importante per non dire fondamentale perché, almeno per la maggioranza delle persone che vivono su questo pianeta, è indispensabile per poter vivere una vita almeno dignitosa, è altresì vero alcuni capisaldi dell’economia moderna su scala mondiale siano quelli della massima produttività e del business, costi quel che costi. In tal senso sono emblematici quegli “esemplari” del genere umano che fanno del lavoro la loro unica ragione d’essere e che, per esempio, in una realtà socio-economica iper-dinamica come quella di Milano, la città in cui lavoro oramai da quasi vent’anni, si possono incrociare frequentemente. Ora, fin tanto che certi soggetti si comportano con una sana dose di autoironia e individuano nel “Milanese Imbruttito” (la figura del businessman made in Milan creata dal comico Germano Lanzoni) il loro modello di riferimento va bene ma la cosa inquietante è che molti, tutt’altro che brillanti ed empatici, si sono profondamente calati in questa dimensione seriamente convinti che tale modus vivendi et operandi (perdonate lo sfoggio del mio bagaglio culturale classicheggiante) rappresenti uno standard di eccellenza.
Sul fronte esattamente opposto a quello appena illustrato c’è invece chi non intende minimamente “scendere a patti” con un mondo così fortemente improntato a stili e modelli di vita che antepongono il conseguimento di risultati materiali economicamente rilevanti a qualunque altro valore e fa delle scelte di vita radicali. Penso in particolare alla vicenda di Marco, originario di Busto Arsizio che, dopo essersi laureato in Economia alla Bocconi di Milano con il massimo dei voti ed aver fatto per anni una brillante carriera manageriale, decise di chiudere quella fase della sua vita, ricca di soddisfazioni professionali ed economiche ma a suo avviso troppo totalizzante, cambiando drasticamente stile di vita ritirandosi, come un eremita, prima sull’Appennino tosco-emiliano e poi sulle montagne dell’Abruzzo.
Personalmente non mi riconosco in nessuno dei due modelli ossia il “Milanese Imbruttito” da un lato e Marco l’eremita dall’altro anche se di quest’ultimo apprezzo molto lo spessore umano e morale e il coraggio di una scelta di vita così nettamente anticonformista. Io mi colloco a metà tra le due posizioni come credo d’altronde facciano, o cerchino di fare, tantissime persone.
Diciamo che nel mio piccolo cerco di crearmi una dimensione esistenziale che, pur facendo i conti con la realtà e senza inseguire chimere, mi dia quel giusto equilibrio interiore e mi faccia apprezzare certi aspetti comunque positivi (e non sono pochi) della società moderna, decisamente incentrata sull’economia e sulla produttività, ma al contempo mi permetta di vivere sensazioni gratificanti non necessariamente legate al loro valore materiale. E anche nella mia vita quotidiana di lavoratore e, da quasi nove anni, di pendolare cerco di cogliere e di apprezzare quegli spunti, apparentemente insignificanti, che tuttavia mi trasmettono positività. Il che mi porta, tra l’altro, ad auspicare – cercando di dare il mio contributo concreto nei limiti delle mie possibilità e capacità – che la situazione critica (in particolare per quello che concerne il lavoro) in cui versa la mia Genova e la mia Liguria, soprattutto a seguito delle drammatiche vicende succedutesi dal 14 agosto 2018 in poi, possa essere superata dando avvio ad una fase veramente di crescita e di benessere, non solo materiali ed economici. E allora, citando un brano del mio musicista preferito (sì, è lui, Pat Metheny), concludo dicendo “Better days ahead”!