Innovazione - 20 dicembre 2019, 17:00

Luca Oneto, miglior giovane ricercatore d'Intelligenza Artificiale in Italia: "I miei algoritmi non faranno discriminazioni sociali"

Nato a Rapallo, vive a Villa Oneto, nel Comune di San Colombano, e vuole rimanere qui a Genova. Abbiamo intervistato il miglior giovane ricercatore d'Italia Luca Oneto, professore all'Università di Genova

E' nato a Rapallo, vive a Villa Oneto, nel Comune di San Colombano, e vuole rimanere qui a Genova perché, dice, “è importante restare vicino ai territori che hanno permesso la mia formazione e restituire in cambio qualcosa in termini di formazione degli studenti, di tecnologie e di risultati raggiunti”. E lui, che ha poco più di trent’anni, di risultati molto importanti ne ha già raggiunti e senza dover fare il "cervello in fuga". Si tratta di Luca Oneto, che ha ricevuto il premio “Marco Somalvico” come miglior giovane ricercatore italiano in Intelligenza Artificiale, e che è professore associato in Sistemi di elaborazione delle informazioni all’Università di Genova. Grazie alle sue ricerche – collabora con atenei di tutto il mondo e con colossi come Amazon – avremo algoritmi capaci di fare previsioni più precise, ma, che, soprattutto non faranno discriminazioni in ambito sociale. Gli abbiamo chiesto come.

 

Come ci si sente e cosa vuol dire aver vinto il premio "Marco Somalvico" come miglior giovane ricercatore italiano nell'area dell'Intelligenza Artificiale?

Ovviamente è un onore, perché si tratta di un riconoscimento, ma allo stesso tempo un onere, perché nei prossimi anni dovrò dimostrare di averlo meritato, perché quello della ricerca è un ambito in cui si deve sempre andare avanti.

Ha sempre pensato, fin da ragazzino, di fare lo scienziato?

Veramente no. Ho frequentato il liceo scientifico-tecnologico Natta di Sestri Levante, poi ingegneria elettronica, sia la triennale che la specialistica, all’Università di Genova, ed è stato allora, grazie al professor Sandro Ridella, che mi sono appassionato alle tematiche di cui mi occupo e su cui ho fatto il dottorato. Dopo ci sono stati i 2 anni di post doc sempre a Genova, poi ho fatto il ricercatore per tre anni, un anno a Pisa come professore associato e infine sono tornato qui dall’1 dicembre.

 

Le sue ricerche vertono su problemi d’apprendimento automatico a partire dai dati per risolvere problemi provenienti dai mondi dell’industria, della sicurezza informatica e dell’etica. Cioè, in parole semplici, che cosa fa?

In generale mi occupo della tematica comune a tutti questi ambiti, ossia i dati che vengono collezionati dai più svariati campi d’applicazione, dall’industria manifatturiera alla medicina agli smartphone e i social network. Quello che faccio è costruire modelli in grado di fare previsioni nel futuro: per esempio quando un macchinario si romperà o se una serie di sensori possono predire se una persona è caduta, cammina o è a letto; se nei socialnetwork c’è un profilo che in realtà non appartiene a una persona, ma a uno spammer, cioè a un bot automatico che produce notizie false; oppure se una persona che ha chiesto un credito, restituirà o meno il denaro.

In che modo l’Intelligenza Artificiale agisce e si ripercuote nel contesto sociale?

Poiché gli strumenti tecnologici vengono usati nella società e sono basati su dati storici, ereditano i ‘bias’, cioè i pregiudizi, delle persone o le discriminazioni perpetrate nel tempo dagli esseri umani: per esempio, se un’azienda deve assumere del personale, ma in azienda la percentuale di donne è più bassa rispetto a quella di uomini, l’algoritmo, essendo basato sui dati, prediligerà i maschi alle femmine. Quindi bisogna costruire algoritmi intelligenti, che siano in grado di evitare questo problema, facendo in modo che le persone siano assunte in base alle qualità e non al sesso, e per farlo bisogna eliminare i ‘bias’ presenti nei dati storici.

Lei collabora, tra gli altri, con un colosso come Amazon: dal punto di vista dell’etica del lavoro è molto criticato…

Amazon è una società enorme, con cui ho lavorato nell’ambit di Amazon Web Services (Aws), che sviluppa l’intelligenza artificiale che si trova dietro ai servizi che sono venduti in Internet, come gli strumenti informatici che suggeriscono alle persone di comprare un prodotto piuttosto che un altro, o che fanno ‘face recognition’ all’interno degli smarphone. In questo caso Amazon fa dei bandi per i ricercatori, finanziandoli perché continuino la ricerca sui punti deboli dei propri servizi, che possono essere punti deboli dal punto di vista tecnologico o anche etico: per esempio è stato dimostrato che gli algoritmi di Amazon sono polarizzati contro donne e persone di colore, in quanto i dati su cui sono costruiti sono ‘bias’ soprattutto americani. Quindi, dal momento che ci si serve di questi dati polarizzati, bisogna costruire strumenti tecnologici migliori, che siano in grado di ovviare alle problematiche etiche. Poi, ovviamente, ci sono i problemi delle multinazionali, che puntano anche al guadagno e non solo a migliorare la ricerca.

 

Ci sono progetti specifici cui sta lavorando e di cui si possa parlare?

Sono due principalmente: fare in modo che gli algoritmi non discriminino sottogruppi nella popolazione, e il problema dell’automatic machine learning, cioè la capacità di costruire algoritmi sempre più automatici che riescano a costruirsi da soli e a risolvere i problemi con la minima interazione umana. Su questi temi lavoro a progetti con la Ucl University di Londra, con l’Università di Singapore e con Amazon.

 

Nel 2018, ha fondato ZenaByte, spin-off dell’Università di Genova: di cosa si occupa? In quanti ci lavorate?

Siamo in quattro e ci occupiamo di andare oltre a quello che si può fare in Università, dove si fanno ricerca e ricerca applicata, ma dove non si arriva a tradurre le tecnologie in prodotti commerciali, cosa che, invece, cerca di fare ZenaByte, con il trasferimento sia tecnologico che di persone, che non vogliono restare nella ricerca, ma continuare su questa strada, in un contesto che non è meramente industriale, ma che punta ai contenuti tecnologici ed è un ibrido tra Università e industria. Ci occupiamo anche qui di analisi di modelli previsionali basati sui dati.

 

Si parla molto di professioni del futuro, immaginandone di nuove che ancora non esistono: nel suo settore cosa prevede?

Sicuramente in questo momento le figure che si occupano di intelligenza artificiale sono pochissime, mentre le aziende le cercano. Il problema è che l’università italiana, non solo genovese, non ne produce abbastanza, per cui sicuramente i tre settori che offriranno grandissime prospettive di lavoro sono: intelligenza artificiale, cybersecurity e digital humanies. Tutto per fare in modo di capire quali sono gli impatti etici delle tecnologie sulla società, e quindi le ripercussioni dell’uso di tecnologie digitali in un contesto che è più umano di quello che poi viene modellato da noi ingegneri.

 

In epoca di cervelli in fuga Lei ha deciso di stare a Genova, ma il suo futuro di scienziato lo vede sempre qui?

Sicuramente sì, perché la ricerca è un mondo di per sé aperto e non importa dove ti trovi: puoi arrivare agli obiettivi che ti poni da qualsiasi parte del mondo. Io collaboro con le università che vanno da Singapore alla California, ma per me è importante restare vicino ai territori che hanno permesso la mia formazione ed è importante, in questo modo, dare in cambio qualcosa rispetto a quello che ho ricevuto, sia in termini di formazione degli studenti che di trasferimento tecnologico verso le aziende, che di risultati raggiunti. Quindi si deve sapere che in Italia ci sono ricercatori come me o anche più bravi, che si occupano di tematiche importanti e che raggiungono grandi risultati anche riconosciuti a livello internazionale.

Medea Garrone