Dal 7 ottobre 2010, dal lucernario che costituisce la copertura a tetto di Castello D’Albertis, sono appese 11 immagini scattate in Nordamerica da Douglas Beasley, fotografo statunitense la cui generosa donazione permise di aprire una nuova sezione permanente del museo dedicata al paesaggio sacro nordamericano.
Sospese nel vuoto di uno spazio a doppia altezza che attraversa longitudinalmente il bastione cinquecentesco e che rimane a contatto con la luce del sole come con le tenebre notturne, queste immagini dialogano con le collezioni etnologiche degli Indiani delle Pianure nordamericane e degli Indiani Hopi dell’Arizona esposte al primo piano del bastione, e avvolgono il visitatore, permeandone l’ambiente a livello fisico ed a livello spirituale.
Questo evento segnò l'inizio del progetto “Alla ricerca della visione...” (Vision Quest...), proseguendo con corsi di fotografia, un workshop fotografico tenuto da Beasley nelle Badlands, U.S.A. (aprile-maggio 2011), la presentazione del libro “Earth Meets Spirit” e la sua mostra itinerante.
Quasi dieci anni dopo Douglas Beasley ritorna a Castello D'Albertis con la nuova mostra intitolata
Il Paesaggio Sacro Nordamericano che costituisce una sorta di rivisitazione dei luoghi oggetto delle immagini dell'installazione del 2010.
Cosi come fra i soggetti delle foto donate, anche in questa mostra ritroviamo luoghi naturali, apparentemente disabitati: montagne, alberi, cieli, oppure il vento, temporali, luoghi di preghiera e di contatto con gli spiriti, pezzi di stoffa o bandiere annodati ai rami degli alberi (prayer strings). Siamo nelle Black Hills e nelle Badlands nel Sud Dakota, le terre che hanno ospitato le battaglie più cruente delle guerre tra nativi e anglo-americani, vediamo il luogo di sepoltura di Red Cloud, il cimitero di Wounded Knee o ci troviamo dinnanzi a Bear Butte, la montagna riconosciuta sacra da più di 60 diversi gruppi indigeni, dove ancora oggi ci si reca per pregare, digiunare e ricevere e offrire doni e preghiere al Creatore.
Il tempo scorre, ma la capacità di Douglas Beasley di trasmettere la sensazione di questi luoghi, il loro spirito, piuttosto che semplicemente il loro aspetto, non cambia: assistiamo, come sempre, al suo sforzo di essere totalmente presente, di fronte alle manifestazioni della natura come di fronte alle persone, e di vedere le relazioni attraverso la fotografia: connettersi con l'essenza di ciò che ci sta davanti ci stimola a creare l'immagine, come afferma in una delle sue interviste.
Quello che é cambiato invece é la duplice valenza di queste immagini: da una parte guardiamo con meraviglia questi luoghi considerati sacri dai Lakota (Sioux) e condividiamo la scelta di Beasley di onorare gli Indiani nordamericani fotografando quanto a loro è più sacro e quanto maggiormente esprime i loro valori e la loro spiritualità: un paesaggio che è sacro perché vi sono vissuti gli antenati, perché è stato consegnato loro dagli antenati e soprattutto perché rappresenta gli antenati stessi.
Dall'altra parte, siamo testimoni del suo desiderio di non voler documentare questi siti, ma di volerne rivelare “il senso”, nella speranza di condividere l'importanza di preservare questa terra per l'arricchimento spirituale delle generazioni a venire.
Non viene pertanto perpetrata l'immagine romantica e stereotipata dell'indiano buono e indomito che cavalca selvaggio attraverso le pianure nordamericane e che ormai appartiene a un nostro passato così come al loro.
Questi luoghi sono costantemente minacciati dallo sviluppo urbanistico, dall'industria dell'estrazione dell'uranio e dal turismo – come si vede nelle immagini esposte nell'ultima sala - e l'intento di Beasley é esplorare l'impatto emotivo che questo comporta. Il suo desiderio è di fotografare come questi spazi “si sentono” piuttosto che come appaiono; sperimentare, sapere e condividere cosa stiamo perdendo per sempre.
Ad amplificare ulteriormente questo intento, un video con immagini a confronto scattate da Beasley negli anni, mette in evidenza lo stato di abbandono, il deterioramento e lo sfruttamento di questi territori dove vivono, in una stasi senza tempo, popolazioni lasciate strategicamente vivere ai margini dell'esistenza.
Per continuare il dialogo con i visitatori aperto dalle domande poste dagli artisti nativi nordamericani nella mostra precedente, e mantenerne vivo il filo conduttore, le vetrine di tutte le sale rimangono anche per questa mostra luoghi interattivi di comunicazione per il pubblico, vere e proprie installazioni denominate Totem Talks, ed invitano a rispondere agli interrogativi di Douglas Beasley. Nell'ultima sala invece il pubblico stesso è invitato a porre le domande all'artista.
A corredo della mostra sono previsti diversi eventi collaterali di carattere musicale, visivo e Story Telling.
ll fine settimana dopo l'inaugurazione della mostra, Beasley vi invita a partecipare a questo workshop durante il quale offrirà la sua particolare visione della città di Genova.
Un invito stimolante per ridefinire non solo quello che può essere il soggetto adatto per ognuno di noi ma anche legato al rapporto stesso con la fotografia.