lavocedigenova.it - 26 dicembre 2018, 08:00

In viaggio alla scoperta di Marte con “Metropolis in my head”

La recensione del disco d’esordio della cantante levantina uscito lo scorso 4 dicembre

Non fatevi ingannare dall’invidiabile accento inglese, Marte è un piccolo gioiello del nostro territorio. Martina Saladino, classe 1995, da grande vuole fare la cantante. E - scusate se è poco - ci sta riuscendo molto bene. Una giovane donna piena di talento e passione per ciò che ama, qualcosa che la spinge ogni giorno a superare se stessa. La musica la sfida e la completa allo stesso tempo e in questo gioco delle parti lei sa esattamente cosa fare e come farla.

L’avevamo conosciuta meglio qualche settimana fa quando, con una luce particolare negli occhi e una grande emozione, ci aveva anticipato che il 4 dicembre sarebbe uscito il suo disco d’esordio, intitolato “Metropolis in my head”. Una raccolta di 9 brani che avrebbero raccontato di viaggi lontani, emozioni e del mondo filtrato dai suoi occhi e racchiuso nella sua testa.

Tutto vero.

Finalmente il 4 dicembre è arrivato e anche io ho avuto l’opportunità di perdermi tra le vie delle “città mentali” di Marte. Anche io sono partita, anche io mi sono smarrita e ritrovata in luoghi lontani.

Il disco, registrato e mixato presso l’Unbox Production di Fulvio Masini, viaggia a metà strada tra l’Indie-Pop e l’Alternative-Rock in puro stile anglosassone, ma ha una serie di sfaccettature particolari tutte da cogliere. Un disco che, pur ricordando grandi artiste come Alanis Morissette, Dido ed Elisa, si comporta benissimo e propone una grande originalità sia dal punto di vista vocale che musicale. Marte sa essere tanto delicata quanto graffiante e i messaggi arrivano forti e chiari nonostante l’intero album sia in lingua inglese. Si tratta di brani caratterizzati da una forte spontaneità: parlano di vissuto, di sensazioni personali e uniche ma rese fruibili per chiunque voglia lasciarsi coinvolgere.

E sulle ultime due settimane - intense ma profondamente stimolanti - ci racconta: “La sensazione di comprare alcune riviste musicali cartacee e vedere il mio disco recensito è una sensazione molto strana, difficile da spiegare, sicuramente bella e appagante. Faccio sempre un po' fatica a distinguere dentro di me quando, una cosa che volevo succedesse, finalmente succede e non è più solo nei miei pensieri. "From my head to my hands" sembra un processo veloce, invece è stato lungo viaggio e non me rendo ancora conto”.

Il viaggio parte con “Shallow Water”, di cui è stato lanciato anche il videoclip ufficiale e che ha tutta l’aria - e la ragione - di essere il brano che mette in chiaro che qui si fa sul serio e che le canzonette le lasciamo agli altri. “Shallow Water” stringe la mano a quell’intima consapevolezza di voler galleggiare e liberamente lasciarsi trasportare dalle onde. Come un ago sorretto dalla tensione superficiale, è meglio lasciare che la corrente ci conduca verso nuovi orizzonti piuttosto che permettere alle pesanti aspettative di trascinarci irrimediabilmente a fondo.

“Train in a Glass” ha una forza e un’energia sorprendente. Lo si capisce dall’attacco no-intro che ti spinge subito dentro la musica. Tre minuti e mezzo di grinta rockeggiante guidata da una voce sempre delicata e precisa. Ma la cosa che più mi ha colpito è stata senza dubbio la storia che la canzone porta con sé e che, al tempo stesso, si cela dietro le parole. “Il brano è nato una sera d’inverno - racconta Marte - mentre ero in giro a bere con un ragazzo che frequentavo. Ero fuori dal locale al freddo e lo guardavo attraverso le vetrate del locale mentre si divertiva con i suoi amici. Ho scritto il testo della canzone su un tovagliolo e poi me ne sono andata a casa, da sola, a scrivere”.

Avete presente quando, durante un sogno in cui vi sentite pienamente coinvolti, cercate di correre o di fuggire da qualcuno o da qualcosa? “Run In” mi solletica la spina dorsale, facendomi rivivere quella sensazione, una sensazione che tutti nella vita abbiamo vissuto almeno una volta. Tuttavia, Marte ha la capacità di rendere unici e personali anche stati d’animo comuni. Un po’ Alanis, un po’ Lene Marlin, la sua voce non fa che incantarmi. E sul brano ci racconta: “Vivevo un periodo di stallo musicale e avevo un disco pronto che non usciva mai.  Ho modificato la canzone diverse volte e finalmente è diventata “Run In”, la fotografia di quello che sono ora”.

Con “In Vain” si fa strada - a gomiti alti - una giovane che si trova a fare amaramente i conti con le persone e i loro cambiamenti. Quante volte hanno provato a cambiarci e quante volte abbiamo provato a cambiare qualcuno? Ogni tentativo, appunto, è e sarà sempre vano e non esiste buona fede che tenga. Una canzone dalla linea melodica forte e decisa, il perfetto accompagnamento di un testo che vuole scuotere e rimproverarci per tutte quelle volte che abbiamo tentato di adattare qualcuno alle nostre necessità o adattato noi stessi alle necessità di qualcuno.

E arrivò, silenzioso, anche l’amore. Da eterna romantica ammetto di aver trovato la mia canzone preferita dell’intero disco. “While You’re Falling” è la nota spassionatamente dolce, nonostante il romanticismo melodico sia una costante di “Metropolis in my head”. “Il brano non è dedicato a nessuno in particolare, è una stesura della mia visione - spiega - in amore ci si dovrebbe comportare come fa la natura. Una pioggia che ridà vita ad un fiore secco, un fiume che porta al mare, un rifugio silenzioso lontano da tutti”. A colpirmi, oltre alle meravigliose parole - sempre perfettamente incastrate tra di loro, è la capacità dei suoni di allontanarsi dal testo, osando con ritmi più sostenuti e tutt’altro che sdolcinati, ma che hanno l’incredibile capacità di sprigionare armonia e concretezza.

La vita di un’artista non è fatta solo di musica: ci sono momenti - come viene descritto in “Wild Anger, Quiet Anger” - in cui si entra a contatto con persone potenzialmente dannose il cui unico scopo è portarci fuori strada. Non aspettatevi aggressività da questo brano: i toni leggeri sostenuti da una melodia che nasce ed evolve in totale tranquillità, dimostrano come, a volte, per dire le cose giuste non sia necessario alzare la voce.

A volte si entra a contatto con persone che reputiamo sbagliate, altre volte siamo noi stessi a sentirci tali. “Dark Light” nasce in un momento di sconforto, dietro le quinte di un palcoscenico, dopo un concerto andato male. Quella luce scura che ci pervade, quel senso di insoddisfazione che ci rende piccoli e fragili, quel momento in cui realizziamo di aver deluso noi stessi e le nostre aspettative: “Dark Light” è un concentrato di emotività.

Arriviamo alla canzone che ha dato il titolo all’album: “Metropolis in my head”. Un bellissimo parallelismo tra il mondo esterno e quello che l’artista vive nell’immaginario, nato dopo un lungo viaggio a New York. Qui troviamo la vera essenza di Marte, una giovane cittadina del mondo che assorbe da esso quante più emozioni possibili. Un brano che ci porta all’interno dei suoi pensieri e che ci mostra come la fantasia possa essere davvero il prolungamento della realtà: dove la strada si interrompe Marte la disegna.

Dopo averci portato a spasso per il (suo) mondo, sorge la necessità di ritornare con i piedi per terra. E la musica riesce perfettamente nell’intento. L’ultima canzone, intitolata “You Won’t Go”, sottolinea il bisogno impellente dell’uomo di mantenere vivi i ricordi, quando qualcuno se ne va per sempre. Un tema profondo e pesante, quello della perdita di una persona cara, che Marte ha saputo tradurre in musica a modo suo. Niente melodie angosciose, solo tanta energia e potenza, il riscatto della vita sulla morte.

Giunta alla fine rimango piacevolmente scossa dalle differenti emozioni che mi hanno attraversata.

Gli stati d’animo e le personali consapevolezze si sono susseguite traccia dopo traccia, dimostrando non solo capacità e bravura, ma anche crescita e maturazione. Le canzoni non vanno semplicemente ascoltate, vanno capite. Ogni testo è un messaggio dove ogni nota diventa mezzo di comunicazione. D’altronde, l’attualissima riflessione di Marshall McLuhan secondo cui il medium è il messaggio non può che trovare largo consenso nel mondo della musica.

E per chi ancora non avesse ascoltato il disco dico: non abbiate dubbi, su Marte c’è vita!

Giovanna Ghiglione