Nel lontano 1856 lo scienziato britannico Alexander Parkes inventava la prima forma di plastica, la nitrocellulosa: era l’inizio di una profonda trasformazione non solo dell’industria chimica ma anche dello stile di vita di noi umani. Polietilene, polivinile e polipropilene (sintetizzato dall’italiano Giulio Natta negli anni ’50) sono i principali tipi di plastica senza di cui ormai sembra impossibile vivere. Si trovano infatti ovunque: imballaggi, tessuti, vestiti, materiali da costruzione, dispositivi digitali, vernici e così via.
Con il boom demografico e l’ascesa della classe media europea dopo la Seconda Guerra Mondiale, la produzione di plastica incrementò enormemente, come anche il bisogno di smaltirla. Delle 8,3 miliardi di tonnellate di plastica prodotte dalla seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, meno del 10% sono state riciclate, mentre tre quarti sono diventati rifiuti, gran parte negli oceani. Qui si scoprì alla fine degli anni ’90 che la plastica viene sottoposta nel tempo ad erosione ed a fotodegradazione, ovvero viene disintegrata dai raggi ultravioletti del sole. Questo crea la microplastica, cioè frammenti di plastica più piccoli di cinque millimetri che giacciono quasi invisibili al di sotto di rifiuti più grandi in superficie e vengono trasportati facilmente in tutto il mondo.
Non sono però di certo invisibili per gli organismi marini. Pesci minuti e organismi filtratori come molluschi e crostacei la scambiano continuamente per plankton e la ingeriscono; allo stesso tempo nutrirsi di plankton non garantisce loro incolumità, perché anche questi esseri minuscoli assorbono microplastica. Fortunatamente, parte della plastica - che non può essere digerita per via della mancanza di enzimi specifici - viene espulsa dall’apparato digerente, ma gli scienziati hanno osservato che una quantità ancora indefinita si trasferisce ai tessuti adiposi dove si concentra nel corso della vita dell’organismo.
Attraverso il fenomeno della biomagnificazione, poi, la concentrazione della plastica aumenta salendo nella catena alimentare, perché i predatori mangiano un numero maggiore di organismi con una crescente quantità nel loro corpo. Se da una parte “solo” un terzo dei frutti di mare e del pesce bianco pescato in acque britanniche contiene plastica secondo uno studio dell’Università di Plymouth, quasi tutti i top predators, come tonni, squali e uccelli marini, ne sono affetti. Questo è parallelo al percorso nella catena alimentare di sostanze chimiche molto tossiche come i “POPs” (inquinanti organici persistenti), spesso sprigionate dalla stessa microplastica, che vanno ad aggiungersi alle problematiche alimentari che stanno subendo gli ecosistemi marini. Molti predatori, infatti, muoiono di fame perché si sentono “sazi” quando in realtà hanno lo stomaco pieno di rifiuti.
L’Homo sapiens si trova in cima alla catena alimentare e non è dunque per nulla isolato dai mali che egli stesso ha procurato agli animali. L’Università di Ghent ha calcolato che un belga medio amante dei frutti di mare ingoia fino a 11.000 frammenti di plastica ogni anno. Con il 40% delle coste italiane inquinate secondo uno studio di Legambiente e almeno un terzo della plastica negli oceani risiedente nel Mediterraneo, è difficile pensare ad uno scenario diverso nel nostro paese.
L’esposizione degli umani alla plastica, inoltre, non consiste solo nel cibo: questa primavera la State University of New York ha analizzato l’acqua minerale imbottigliata di undici marche in tutto il mondo, tra cui anche San Pellegrino, trovando una concentrazione media di 325 frammenti al litro, circa il doppio di quella del rubinetto. L’Italia è il primo paese in Europa ed il secondo al mendo per consumo di acqua minerale: un italiano medio ne consuma 206 litri all’anno.
L’Organizzazione Mondiale della Salute ha lanciato l’allarme su quella che ha chiamato “un’area di nascente preoccupazione” e ha chiesto alla comunità scientifica di intensificare la ricerca sull’impatto dell’assunzione di microplastica sulla salute umana, mentre avrebbe esaminato con attenzione quella già “scarsamente disponibile”. Intanto il tempo scorre: entro il 2025 ci sarà più plastica di pesci negli oceani secondo un report della Ellen MacArthur Foundation.
E il bel paese non ne è incolume. Nel giugno di quest’anno ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche guidati dal Prof. Francesco Regoli hanno rilevato tracce di plastica in un terzo di pesci e crostacei campione nel Mar Tirreno. Come si muoveranno la scienza e la politica per arginare quest’immonda nefandezza tutta umana che sta divorando gli ecosistemi del pianeta?