Laurea in Bioingegneria, Dottorato di ricerca in Tecnologie Umanoidi, ha trascorso due anni al Robotics Lab del Rehabilitation Institute di Chicago e l’Emergent Robotics Laboratory dell’Osaka University, ha lavorato come ricercatrice responsabile del Cognitive Robotics e Interaction Lab dell'Istituto Italiano di Tecnologia e da alcuni mesi è anche ricercatrice al Dibris (Dipartimento di Informatica, Bioingegneria, Robotica e Ingegneria dei Sistemi) dell'Università di Genova. Con un curriculum del genere, Alessandra Sciutti è l’unica genovese, su un totale di 403 scienziati di tutto il mondo (di cui il 40% costituito da donne) ad aver vinto gli Erc, i fondi europei che premiano i giovani di talento nell’ambito della ricerca. Davvero un’eccellenza non solo genovese, ma nazionale, e un esempio per le donne, tanto che, a dimostrazione di come i tempi stanno cambiando, la Mattel dallo scorso luglio ha messo in commercio la “Barbi ingegnere robotico”, e ha chiesto ad Alessandra un’intervista come modello in questo settore.
Ricevere gli Erc, i fondi europei per la ricerca, è un riconoscimento molto importante e Lei è l’unica genovese: che cosa significa questo per Lei?
Per me questo riconoscimento, al di là della gioia e della soddisfazione personale, rappresenta una solida base, punto di partenza, in termini di fondi messi a disposizione del mio team per poter consolidare il mio gruppo, acquistare nuova strumentazione e portare avanti la ricerca con maggiori prospettive di crescita.
Qual è il tema della ricerca?
Il tema specifico del progetto verte sullo studio di come riusciamo a coordinare la nostra percezione del tempo e dello spazio. Ognuno di noi ha una percezione differente, ma quando si tratta di collaborare con gli altri ci adattiamo alla percezione altrui, senza sapere però come questo avvenga. L’obiettivo del progetto è proprio questo: capire cosa succeda quando due persone collaborano e influenzano la reciproca percezione di spazio e tempo e trasferire questa capacità di adattamento a un robot o una tecnologia, per rendere più facile la futura collaborazione, con particolare attenzione agli anziani, perché si suppone che parte dei loro problemi di interazione dipenda da una percezione diversa del tempo. Su questa tematica lavorerò con un team multidisciplinare, una parte dedicata allo sviluppo delle capacità del robot e alle misure di “human robot interaction”, mentre un’altra parte con esperienza in psicofisica, psicologia sperimentale e modellazione, fondamentali per supportare la ricerca sull’uomo e di interazione uomo-uomo: si tratta di modelli che non sono mai stati studiati durante l’interazione.
In che modo la progettazione di un robot serve a capire meglio l'uomo?
Il robot può avere due ruoli importanti che accompagnano i metodi di ricerca. Il primo è quello più classico, partendo dalle scoperte delle neuroscienze, della psicologia dello sviluppo, teorizziamo dei modelli, che si replicano sul robot, come una sorta di banco di prova, che si mette in interazione con gli altri vedendo se il suo comportamento effettivamente replica quello che ci aspettiamo sulla base del modello, ritrovando così le capacità che vediamo nel bambino. L’altro è usarlo come stimolo: studiando l’interazione sociale spesso si chiede alle persone di valutare l’interazione di altri vedendoli in video, il che è uno studio di osservazione, o si chiede di interagire con un attore: il problema è che anche l’attore più esperto non è in grado di controllare alcuni segnali impliciti del corpo, che sono l’elemento fondamentale della nostra capacità di comunicare. Invece il robot ci dà la possibilità di controllare nel minimo dettaglio tutto: in modo arbitrario possiamo modificare la velocità, controllare il coordinamento di braccia e occhi o elaborare strategie completamente diverse, il che permette di mandare segnali in modo controllato e vedere davvero le caratteristiche importanti del movimento del corpo umano, che comunica qualcosa all’altro. E possiamo fare anche il contrario: siccome il robot ha sensori di varia natura, possiamo renderlo sensibile unicamente a uno dei segnali: per esempio fargli leggere solo la direzione dello sguardo del partner umano e da qui vedere che cosa riesce a capire, per esempio quale oggetto voglia la persona. Così possiamo capire dov’è nascosta l’informazione di collaborazione, perché possiamo scindere ogni singola informazione per volta. Cosa che noi esseri umani non facciamo, perché è talmente parte della nostra vita saper leggere la comunicazione non verbale, che il nostro cervello legge comunque i segnali senza che arrivino alla nostra consapevolezza. Il robot, quindi, è uno strumento utile per studiare questi fenomeni che sono al di sotto della nostra consapevolezza, senza perdere il controllo e potendo fare misurazioni scientifiche ripetibili durante l’interazione.
Questi studi vengono fatti con iCub?
Sì, anche il progetto Erc prevede l’uso di iCub, perché è un’ottima piattaforma di ricerca, e anche la sua struttura fisica, simile a quella di un bambino, permette di generare movimento di mani e occhi in modo molto raffinato e controllato e quindi permette un’analisi precisa dei fattori che riteniamo importanti. L’ambizione è quella di riuscire a individuare quali siano gli elementi davvero importanti, in modo che quello che deriviamo dall’uso della piattaforma si trasferisca su strumenti d’uso quotidiano: se capisco come e quando muovo gli occhi istintivamente nel momento in cui preferisco una cosa a un’altra, questa capacità di leggere l’interesse posso implementarla anche in un telefonino. E poi iCub è parte di una rete molto ampia, essendo “open software”, con molti centri che lavorano in parallelo in tutta Europa e tutto rilasciato con libero utilizzo, quindi se uso la piattaforma posso usare sia gli algoritmi da noi sviluppati in precedenza sia quelli sviluppati dagli altri team di ricerca.
A proposito di interazione uomo-macchina, cresce la preoccupazione che in futuro i robot possano portarci via il lavoro o avere il sopravvento: cosa ne pensa?
La paura nei confronti dei robot in generale e degli umanoidi in particolare secondo me è figlia di quella che è stata la robotica industriale finora, che ha mostrato nelle industrie robot perfetti, fino al punto di far credere che l’uomo non fosse più necessario. Questa tuttavia è una visione della robotica passata, perché nelle aziende di ora si è capito che il robot che fa tutto da solo è quello che può compiere solamente azioni ripetitive e in un ambiente molto controllato, ma di certo non è quello in grado di interagire con l’uomo e soprattutto di sostituirsi all’esperienza e alle capacità di un operaio. Oggi stiamo lavorando per realizzare dei robot in grado di aiutare davvero l’uomo. Infatti anche la ricerca aziendale è rivolta alla “collaborative manufacturing”, collaborazione in cui si sfrutta il robot, che è più preciso e che non si stanca, mentre l’uomo è più creativo e adattabile all’imprevisto, e capace di imparare cose nuove velocemente. Nell’economia più agile in cui non c’è spazio fisico per investimenti molto grandi a priori, ci vuole la capacità di adattamento e per ora l’unico modo è mettere un essere umano nel “loop”, cioè in collaborazione con il robot. Io credo che il problema per i lavoratori ci sarà, ma solo come fase di transizione. Nell’immediato infatti i lavori di routine verranno rimpiazzati dai robot e questo si potrebbe tradurre in un temporaneo bilancio negativo, tuttavia è altrettanto vero che le nuove tecnologie più sono pervasive, più daranno vita nel medio e lungo termine a nuovi tipi di lavoro che noi oggi non riusciamo a prevedere, nè a contare. Questo è accaduto con l’informatica: prima solo chi aveva studiato moltissimo poteva permettersi di affrontarla. Ora i ragazzi del liceo sanno fare videogiochi bellissimi. Penso che accadrà così anche con i robot.
È tra i pochi scienziati che potranno restare in Italia a condurre le ricerche: lavorare qui a casa, cosa significa?
Sono molto legata a Genova, al di là dell’ovvio retaggio, e ho molto fiducia, perché lo studio che conduco è figlio di una linea di ricerca nata dalla scuola di Bioingegneria di Genova, ed è quella di usare un robot per capire meglio l’essere umano e non solo per avere macchine migliori nel futuro. Si tratta di uno strumento diverso e aggiuntivo per comprendere da una nuova prospettiva come sviluppiamo la nostra intelligenza e la nostra capacità di interazione. Quindi portare avanti questo studio, che nasce oggettivamente qui, e farlo avanzare verso tematiche di interazione con gli altri, che sono ancora da scoprire, per me è bellissimo.
Il settore di cui si occupa ha una alta percentuale maschile: cosa significa per una donna essere una scienziata tra tanti uomini? Tra l’altro si parla di molestie anche nell’ambito della ricerca.
Io sono stata fortunata, perché ho avuto sempre a che fare con un ambiente multidisciplinare, multietnico e ben suddiviso tra donne e uomini. Sia in IIT che in Giappone ein Usa ho lavorato a stretto contatto con ragazze che si occupavano di tematiche simili alla mia, quindi non ho vissuto il problema del maschilismo sul lavoro. Forse è ormai uno stereotipo che rimane nella società. Quando si parla di robotica ancora non si pensa a immagini femminili, anche se ormai ci sono molte attività per cercare di avvicinare le giovani a questo settore; come i tanti corsi sia di robotica sia di programmazione organizzati per far capire che gli stereotipi non hanno ragione di esistere. Addirittura c’è anche la Barbie ingegnere robotico, uscita a luglio scorso con un robottino e per la quale sono stata intervistata col gruppo di IIT: il servizio uscirà a ottobre sul magazine di Barbie.