In tv l’abbiamo vista recentemente interpretare il ruolo della prostituta ne “Principe libero” sulla vita di De André, mentre al cinema recita nel film di Di Iorio “Sanza distanza”. È Elena Arvigo, attrice e regista teatrale tra le più impegnate e indipendenti del panorama genovese – ha lasciato un’importante tournée con Glauco Mauri per realizzare i propri progetti - apprezzatissima a Roma per l’ormai celebre “Trilogia Arvigo”, i suoi monologhi: “Il dolore”, “4:48 Psychosis” e “Una ragazza lasciata a metà”, ma anche “Donna non rieducabile". A dimostrazione di come arte e libertà richiedano molto coraggio, nello spettacolo come nella vita. E forse ancor di più se si fa teatro a Genova.
Sei al cinema con “Senza distanza”, opera prima di Andrea Di Iorio, che ha avuto un ottimo riscontro e ha vinto alcuni premi.
Si tratta di un film girato in otto giorni, totalmente autoprodotto, e per questo è già miracoloso quello che è accaduto, perché sono operazioni concentrate nelle mani di chi le porta avanti, come anche il teatro che faccio io, per certi versi. Se guardi alla realtà dei fatti, capisci che ci vuole una dose di incoscienza per questi progetti, che siano di cinema o di teatro. Non bisogna chiedersi che cosa significherà farlo, ma andare avanti. Mi soffermo sulla parte produttiva perché in alcuni casi è fortemente connessa all’urgenza artistica. Anche se ci sono progetti molto ricchi sono meno autonomi dal punto di vista artistico. La libertà di Andrea di scegliere tutti attori di teatro e non di cinema o tv è data dal fatto che era libero, era il suo film.
Che genere di film è?
E’ un film strano, sul matriarcato, basato su un piccola comunità di donne senza mariti, con un b&b in cui le coppie vengono messe alla prova. Non sembra un film italiano, ma spagnolo o portoghese, perché non ha le caratteristiche che ormai hanno tanti nostri film, come la delinquenza o la coppia borghese nevrotica. Il fatto è che gli autori hanno altre idee, ma è come se ci fosse una sorta strada già tracciata, per cui è difficile proporre altre cose e trovare sostegno. Proporre dei nomi che non siano cinetelevisivi e con una tematica inusuale non è visto come rassicurante. Questo è accaduto a film come “Una coppia normalissima”, “Il ratto” o “Una vita in cambio” di Roberto Mariotti, in uscita quest'estate in varie rassegne. Invece Andrea Di Iorio si è molto prodigato e ha difeso le sue scelte. Io partecipo sempre molto volentieri a questi progetti.
Infatti anche tu cerchi di mettere in scena le opere che vuoi.
Per me arte e libertà sono due parole collegate nella loro utopia e chi cerca di fare le cose rivendicando la libertà, è sempre amico mio. Quindi ritengo sia ciò in cui mi riconosco di più. E quindi, se non avessi deciso per i miei progetti, chi mi avrebbe mai dato da interpretare, per esempio, Anna Politkovskaja dal testo di Massini “Donna non rieducabile”? Ci sono ruoli per cui si dice: vorrei farlo e lo faccio. E questo richiede grande energia. Il cinema lo conosco molto meno nella sua interezza, è il teatro che conosco di più, ma purtroppo mi pare abbiano lo stesso problema: la mancanza di coraggio. La fantasia richiede coraggio, non può essere rassicurante. E questo produce una ripetizione di spettacoli tutti uguali. Non so con che forze, guardando al passato, ho fatto quello che volevo. Penso che questo riguardi anche il giornalismo.
Grazie a questo coraggio a Roma la critica è stata, giustamente, molto positiva sulla così ribattezzata “Trilogia Arvigo”, che interpreterai al Teatro Torlonia a marzo 2019.
Ne sono felicissima, perché è un riconoscimento interessante e curioso, anche per il modo in cui mi hanno presentato, pensando che io arrivi dal teatro off. In realtà non è la mia origine: avevo già recitato, in spettacoli altrui, al Teatro Argentina e all’Eliseo. Ma ho fatto delle scelte, per esempio lasciando le turnée internazionali e l’”Edipo Re” con Glauco Mauri, per i miei progetti, come “4:48 Psychosis”. E’ un momento veramente complesso per le arti dal vivo, specie per il teatro, quindi mi sembra giusto cogliere l’importanza di questo riconoscimento. Quindi dopo anni di lavori a Roma, in qualche modo ho creato una mia identità. C’è stato un filo rosso dei progetti, che è stato resistente nonostante nel mezzo ci siano state difficoltà, repliche sparse, interruzioni, altri spettacoli per vivere.
Un riconoscimento anche a un teatro civile, che in genere ha come protagoniste le donne?
Sì, come il progetto sulle donne e la guerra. Con “Elena di Sparta” avevo vinto un bando, ma poi non c’è stata la produzione, mentre è andata bene con “Donna non rieducabile”. Il testo di Massini è fatto a quadri, è una grande stoffa da ritagliare, come mi disse. Ho scelto Anna Politkovskaja perché è una figura molto interessante. E poi volevo raccontare la storia delle persone. Non so se sia teatro civile, perché secondo me lo è tutto il teatro, ma sicuramente quando disturbi una persona reale, morta per difendere un certo tipo di ideali, la responsabilità è come se fosse più alta. La scena è luogo di bellezza e responsabilità, come la vita. Le scelte che fai durante la giornata devono avere una coerenza: poi essere all’altezza delle nostre buone intenzioni è difficile, ma si prova a restare coerenti. Per questo a volte ho lasciato degli spettacoli, perché mi sembrava che in quel momento fare i miei avesse più senso. Questo ha un prezzo alto. E a conferma del fatto che serve anche coraggio, l’esempio è stato il Festival delle Antiche Mura a Cittadella, tutto basato sul teatro civile, in cui ho portato “Donna non rieducabile”: quattro giorni di sold out, perché è stato fatto un grande lavoro sul pubblico e sul territorio. Questo richiede impegno, non è come annunciare lo spettacolo di Ficarra e Picone.
Parliamo invece di teatro a Genova, da cui manchi da un po’.
Genova è la città con cui ho sempre avuto un rapporto un po’ complesso e credo dipende anche molto da me. Sicuramente dal punto di vista teatrale, non avendo fatto la scuola dello Stabile, ma un altro percorso, è come se non fossi stata genovese. Con la Tosse si è parlato diverse volte di fare cose insieme, ma a parte “Psychosis”, non si sono ancora concretizzate. Ma trovo sia una realtà molto interessante, se guardi le loro stagioni, c’è uno spiraglio verso l’Europa ed Italia, ci sono proposte specialissime che altrimenti non avrebbero una vetrina a Genova, come la “Famiglia Flos”, anche se la città, teatralmente, non è piccola. Anche con l’Altrove ho un buon rapporto. Penso si trovino meglio i non genovesi che i genovesi qui. Chi si trasferisce a Genova la vede come una perla, mentre tanti genovesi ne sono scappati, come me. È bella e poetica, è difficile parlarne male come qualità di vita, ma ha una potenzialità depressiva; è paurosa e giudicante e rende pauroso anche a te. Il teatro di Genova per me è come un forte inespugnabile. Se ci fossi rimasta sarei diventata la pazza del paese e a parte Parma credo non esista città più borghese di questa. Ma probabilmente anche io ho sbagliato, perché non sono particolarmente brava nel tessere i rapporti, è sempre stata una mia inadeguatezza.
Prima di Roma ci sarà il debutto al Festival di Framura.
Sì, ad agosto leggerò “Lettere delle case chiuse”, in occasione dei sessant’anni della Legge Merlin. Il progetto era più ampio: insieme a Francesca Ciocchetti, Francesca Mazza e Caterina Gramaglia, avremmo dovuto realizzare questo progetto al Festival Orizzonti di Chiusi, che però, poi, non ha voluto sostenerci.