Cultura - 05 giugno 2018, 09:40

Mario Kaiser: "Per Genova ci vuole una scelta coraggiosa, anche la diradazione"

Ha lavorato con l’archistar Zaha Adid per Londra 2012, a Napoli ha progettato un tunnel sottomarino e per Expo Milano è stato project manager. E' l'architetto Mario Kaiser, che ripensa ai progetti per Genova

Ha lavorato con l’archistar Zaha Adid, ma modificandole il progetto per Londra 2012. A Napoli ha progettato un tunnel sottomarino che ne avrebbe dovuto trasformare il traffico cittadino ed è stato l’unico project manager italiano di Expo Milano 2015. È Mario Kaiser, architetto genovese esperto in “smart city” e rigenerazione urbana, che da anni fa la spola tra la capitale britannica e il capoluogo ligure. Lo abbiamo intervistato a Genova, per la quale vede ancora una grande opportunità attraverso il progetto, accantonato, per Ponte Parodi e la scelta, coraggiosa, di “diradazione” sull’esempio di Barcellona.

Sei un “cervello in fuga” che ormai non intende rientrare?

Se Fossimo in America o in un luogo più lontano penserei di tornare, ma ormai siamo vicinissimi, in giornata posso anche andare e venire. In questo modo io e la mia famiglia abbiamo le cose migliori di entrambi i mondi: da una parte l’efficienza, il pubblico, che nel mio settore progettuale funziona bene, ma anche la casa a Nervi, dove veniamo spesso, quindi la fuga è a metà.

Qual è stato il tuo percorso a Londra?

Mi sono laureato nel 19995, quando c’era penuria di lavoro per i giovani architetti. Sono partito col volo di sola andata il 16 giugno del 19997, incerto tra Berlino e Londra e ora sono in Inghilterra da ventun’anni. A Londra ho trovato impegni sempre migliori, sono arrivato nella Arup, che è una società di ingegneria globale, dove impari davvero la cultura del lavoro. Si tratta di una partnership con i dipendenti, non c’è il capo, infatti fin dal primo giorno maturi le azioni della società. Racconto sempre un aneddoto di quegli anni: alle sei e trenta del pomeriggio, mentre eravamo ancora a lavorare, uno dei capi è ha staccato il contatore del piano, per farci capire che non dovevamo stare a lavorare oltre una certa ora, perché non era giusto. Se avessimo avuto una mole di lavoro eccessiva, avrebbero assunto altre persone o suddiviso il carico con altri. Non che tutta la realtà britannica sia questa, ma è un caso di società integerrima. Infatti Poi mi sono dedicato ad altri lavori come esperto in proprio, alle Olimpiadi di Londra e all’Expo di Milano. Ho un piccolo studio con genovesi, che hanno voglia ed entusiasmo: prendo sempre genovesi e italiani e ho clienti contenti della loro formazione, che è assolutamente apprezzata. La nostra Università è tanto teorica, ma a lungo andare serve: usciamo senza sapere niente di materiali e tecnologia, mentre loro studiano per quattro anni, di cui uno già fatto in seno alle aziende, il che li fa assorbire meglio nel mondo del lavoro, ma la nostra cifra culturale, maturata negli anni di studio in Università, ci ripaga nel giro di pochi anni.

Come sei diventato “Principal designer advisor” dei Giochi Olimpici di Londra 2012?

Tutto nasce quando ero nella società Ove Arup: nel 2007 un collega mi dice che Londra aveva vinto contro Parigi diventando sede dei Giochi Olimpici per il 2012; l’assegnazione era avvenuta nel 2005, sette anni prima, e nel 2007 si definiva la squadra del Governo: la progettazione, infatti, è stata affidata tutta a consulenti esterni, mentre ci voleva il coordinatore, chi visionasse tutta la progettazione, cioè il “Principal designer advisor”. Il Times aveva pubblicato l’inserzione: era una carica così olistica, che ci ho provato a cuor leggero. Mi hanno risposto e sono andato avanti per tutta la trafila delle selezioni. Non so quante centinaia di selezioni hanno fatto, ma alla fine ho vinto. E così lavoravo per l’Agenzia Governativa preposta a tutti i progetti, la Olympic Delivery Authority. Da supervisore ho fatto modificare il progetto dello stadio di Zaha Adid: era contraria, ma io ho pensato alla sostenibilità e al futuro.

Pensi che in Italia sarebbe stato possibile fare quello che hai fatto a Londra?

Non posso saperlo. Ho lavorato a un altro grande evento, l’Expo di Milano, ma perché avevo già l’esperienza. Sono venuti i vertici, Gorini e Gatto, direttori di Expo preposti alla progettazione del sito, per propormi di collaborare. Io ero l’unico europeo assieme a un belga, ma perché, grazie a Londra 2012, avevo già l’esperienza in grandi eventi. Un’occasione del genere per un giovane architetto senza esperienza non penso ci sarebbe.

E poi ci sono stati i progetti per Napoli e Milano.

L’esperienza a Napoli è stata bellissima e l’ho fatta quando ancora ero nella Arup. Nel mondo anglosassone l’architetto è una figura scissa; mentre qui è progettista e gestore progetto, in Inghilterra gli albi sono separati: c’è il designer e c’è il project manager. Quando sono passato al project manager, che è più nella mia indole, e al progetto per Napoli, ero alle prime armi in questo e l’unico italiano che ci lavorasse. Si trattava del sottopasso di Via Acton: doveva essere doppia canna sotto il mare, come doveva essere anche qui a Genova, per togliere il traffico dal fronte del mare. Era un’idea avuta dall’allora sindaca Iervolino. Il progetto preliminare andava fatto in poche settimane, 60 giorni e ci siamo trasferiti a Napoli, dove abbiamo allestito un ufficio all’interno dell’albergo in cui alloggiavamo. Siamo riusciti a fare un progetto perfetto per il preliminare del tunnel, ma la giunta è cambiata e il progetto non è stato realizzato. Esperienza personale è stata bellissima, a contatto con napoletani e inglesi. Anche a Milano, per Expo 2015, sono stato project manager, unico italiano, ma dopo l’esperienza londinese. Mi hanno scelto perché avevo già lavorato a un grande evento come le Olimpiadi. Lavorare a Milano e Londra è molto diverso, ma bellissimo in entrambi i casi.

Sostenibilità e qualità della vita per i disabili: facciamo un confronto tra Genova e Londra?

Sia a livello d’ambiente, quindi di sostenibilità, sia d’accessibilità, a Londra siamo un decennio avanti, a livello di regolamentazione e di cultura del progettista che pensa già a certe cose come soluzioni assodate. Per esempi a Londra non c’è attraversamento pedonale senza rampa: non una posticcia, ma si tratta della pietra del marciapiede tagliata a quarantacinque gradi. Questo viene da una cultura e un’attenzione che sono insite fin dai regolamenti e dai permessi. Non c’è mai il bisogno di imporle, perché vengono date per scontate. Qui c’è bisogno di adattamento per questa realtà che inizia ad avere numeri esponenziali. Lo stesso per la sostenibilità: qua è ancora considerata come un requisito che bisogna soddisfare, mentre là è insita nel progettista. Poi dipende anche da realtà a realtà. Rispetto ad altre città italiane a Genova ho visto cambiamenti dopo Euroflora: i Parchi di Nervi sono stati una scelta illuminata, usando un parco già esistente e lasciando al parco stesso un arricchimento. Si lascia qualcosa sul territorio. Genova non è al di sotto di altre città.

A quali progetti hai lavorato per Genova?

A Genova ero tornato lavorando al progetto per Ponte Parodi, per il quale ero nella squadra di Arup. Quella è stata un’occasione persa per la città, secondo me. Penso che ancora adesso potrebbe essere un’opportunità come il Porto Antico per le Colombiane, perché si tratta dell’ago della bilancia intono cui il Centro Storico potrebbe rinascere e su cui potrebbe contare come bacino di utenza. Più di recente, invece, ho fatto parte anche del concorso del Blue Print: ero tra i dieci team vincitori. Ma siamo un po’ al paradossale: non si è mai visto che non venga assegnato un concorso di tale entità, perché l’esborso fatto dagli studi professionali che ci hanno lavorato è enorme e non affidarlo lascia segna sfiducia, visti i tempi e le risorse per partecipare. Fare un concorso di idee e poi bocciare le proposte per ragioni di metrature non è stato lo strumento più adatto da scegliere. Dà un precedente che per la città potrebbe essere negativo. Al prossimo concorso un progettista internazionale ci penserà due volte prima di partecipare. Eppure ha un valore unico questa città.

Che idee hai per il futuro della città?

Ho letto di voler dare seguito a un percorso del Museo Galata, aprendo il varco verso Palazzo Reale attraverso il mercato, per convogliare i flussi del porto antico dentro i vicoli. Io sono per fare anche la diradazione, che è stata un grande tema del passato. Se c’è un problema di vivibilità, di mancanza di luce, facciamo una diradazione mirata su immobili compromessi che non si possono più salvare. Ci sono forse realtà troppo compromesse, e per salvarne cinque eventualmente ne eliminiamo una. Quando si creano gli spazi, tutto diventa più vivibile. Se si fa dentro anche al Centro Storico, ben venga: è l’interesse del pubblico, che viene prima dell’interesse del privato.

Medea Garrone