Che cosa lega Tiger Spot, nota catena commerciale danese e un classico della cultura cinese, il “Daodjing. Il canone della Via e della Virtù.”? Apparentemente niente, se non fosse per lui, Stefano Rossi, in arte Zen Zero, i cui disegni, pervasi di misticismo orientale, tappezzano le pareti del primo piano del negozio di Via San Vincenzo. In mostra fino a luglio, infatti, “Limone Fiore. Il primo Sutra di Zen Zero”, sono le illustrazioni su tessuto del racconto “Limone Fiore”. Zen Zero, giovane grafico e storyteller (anche per progetti sociali: zenzerostory.it) con lo studio in co-working in Centro Storico, tra libri sullo Zen, sull’arte giapponese di Kunijoshi e una spada jien per fare Tai chi, ti offre un biglietto da visita, in formato francobollo, con scritto sul retro: “Disegnetti e storielle”, ma in realtà è un artista poliedrico che ha saputo dare vita, e soprattutto forma, a un mondo interiore molto profondo, ricco di spunti filosofici e religiosi, occidentali e orientali, in cui un nuovo linguaggio ideogrammatico, arte e umanità, sono inevitabilmente intrinseci, rispecchiando quelli che sono anche i progetti comunitari a cui lavora.
Qual è la tua formazione?
Sono illustratore e ho sempre scritto. Avevo iniziato l’Accademia di Belle Arti, ma ho deciso di lasciarla, anche se prendevo il massimo dei voti, e anche Giurisprudenza. Ora ho 27 anni e lavoro in proprio da alcuni anni. Prima facevo il cameriere da quando ne avevo 16.
Perché il nome d’arte Zen Zero?
All’inizio mi occupavo di personaggi che erano tutti vegetali, e Zen Zero era un profeta dell’epopea dei tuberi e della frutta. C’erano, per esempio, le Albicoccole e i figli di Soia e così via. Le persone hanno iniziato a chiamarmi Zen Zero e poi ho fatto il logo, che funziona ed è diventato una sorta di brand. Rimanda molto allo Zen, ma con lo Zero diventa più “leggero”. Ho prodotto per la casa editrice Verticomics “Patata Wi-Fi”, che è un lavoro molto basato sullo spirituale, in quanto è la ricostruzione del Sutra, non su carta, ma su tessuto da srotolare, per rievocare una certa sensazione di antico. Ma in genere sono un po’ imprenditore di me stesso e ho bisogno di avere dei riscontri subito ai miei lavori, anche per questo autoproduco le mie storie.
Su cosa si basa la tua ricerca?
C’è un grande lavoro interiore e i miei progetti artistici rappresentano questo approfondimento personale. Faccio comunicazione, mentre questi lavori sono una sorta di vocazione e un metodo di rielaborazione mia personale. Il riferimento è ai libri sullo Zen, ai classici del Tai chi, da cui è derivato l’ultimo progetto, ma anche l’universo fluttuante di pittura giapponese, in particolare di Kuniyoshi. Si tratta di un lavoro iconografico di costruzione. I cardini sono spiritualità e illustrazione, ma anche l’iconografia cristiana, perché mio padre è teologo, e da lui ho assimilato questo aspetto. Infatti ho ricostruito anche trittici cattolici. Sono le mie due anime che convivono. Lui mi ha sempre spinto alla ricerca in questa direzione. E intanto fin da piccolo praticavo arti marziali e col Kung Fu ho iniziato a fare meditazione. Da qui ho approfondito anche attraverso letture personali. Ho letto il “Daodejing” prima di tutto, ma leggo tante cose cercando di assimilarle e trovare spunti interessanti e stimolanti. Ho letto anche testi di Ikeda sul buddismo della Soka Gakkai.
Quali sono i progetti sociali a cui ti dedichi?
Quattro anni fa ho creato la Comunità di Banchi, un gruppo giovanile di lavoratori e studenti, che è dentro alla Chiesa di Piazza Banchi, vivendola e popolandola di eventi. Con Monsignor Granara abbiamo fatto un patto: di vivere lì restituendole vivacità. Si tratta di un esperimento, mio e di Giacomo D’Alessandro, ed è stato il nostro primo vero progetto sociale e spirituale. Abbiamo fatto un’analisi di quello di cui la comunità del Centro Storico ha bisogno e abbiamo messo i nostri saloni a disposizione e organizzato cineforum, concerti, dibattiti culturali, religiosi e interreligiosi. Il bello di questi momento è che crollano le barriere e ci si parla davvero. Adesso ci occupiamo anche d’altro, io ho iniziato a seguire “Vico Mele Trattoria Sociale”, un’altra bellissima esperienza di rielaborazione del tessuto sociale, per cui faccio comunicazione e grafica, ma vivo dall’interno tutti i loro progetti. Ho lavorato anche per “Riparte il Futuro” contro la corruzione. Inoltre sto preparando con Giacomo dei laboratori, pensando a un futuro comunitario fatto di cammino e riflessioni spirituali.
Che relazione c’è tra l’attività sociale e il tuo lavoro artistico?
Effettivamente il sociale, l’umano, è un “bagaglio” che prendo e che trasmetto scrivendo. Fare tanto lavoro di relazione con gli altri mi porta a un processo di immedesimazione che fa sì che viva un po’ anche le vite altrui e che, quando narro, mi senta più autenticamente me stesso. Il sociale per me c’è sempre stato e quindi influenza per forza di cose tutto il resto della mia vita, la permea in tutto quello faccio, e la genuinità con cui propongo i miei lavori si lega alla vita in Centro Storico, alle comunità diverse con cui mi rapporto.
“Limone Fiore” esattamente che cos’è?
Un gioco attraverso cui giungere a una riflessione. Sono testi in italiano, ma realizzati in forma di ideogramma e quindi vanno decodificati, anche alla fine, per completezza, c’è la traduzione. Si tratta di un piccolo Sutra, riprendendo l’ideologia buddista del Sutra ritradotto, quindi è un messaggio sull’essenzialità della vita nella foresta, ed è contenuto in un packaging in juta con le indicazioni di lettura. È frutto di meditazione: i disegni li ho fatti in momenti di meditazione e ho scritto il testo in campagna, e volevo venisse letto in quest’ottica di riflessione. Per cui è scritto per dare il senso e la fatica a ogni parola. In genere, infatti, si legge velocemente e resta poco del contenuto. Invece questo gioco dà la possibilità di riflettere sulla parola e sul suo peso. Ho scritto il biglietto di accompagnamento perché vorrei che le persone si fermassero davvero, mettendosi seduti, in atteggiamento d’ascolto, per stare quieti e dare un freno a tutto. “Limone Fiore” non è altro che il genitore degli ideogrammi, l’altro mio progetto. Sono tutte fasi di un percorso in evoluzione. La costante sono linguaggio, disegno, spiritualità in senso ampio, senza fermarsi su una dottrina o un momento storico particolare. È per diventare un essere umano compiuto e fare una ricerca verso un essenziale e un emotivo.”
Chi fruisce di questo genere di ricerca?
Questo laboratorio è una mia ricerca interiore per capire cosa mi scuote, al di là delle sovrastrutture, quanto riesco a emozionarmi, e il lavoro di trasmissione agli altri viene dopo, non in automatico. E’ una cosa che viene di conseguenza. Si sta creando in quest’ultimo anno un po’ di comunità intorno a me, che mi sprona e mi chiede di leggere e creare. “Limone e Fiore” è un testo non molto facilmente fruibile, eppure ha avuto molto successo. Lo avevo fatto per gli amici, stampato lo scorso Natale in poche copie, eppure ha avuto molto successo e si trova ancora nella libreria Bookowski, e si troverà nella libreria indipendente Book Morning. E naturalmente online. Penso che ci sia bisogno non di spiritualità, ma di nuove ricerche, ed è una cosa che rintraccio negli altri: le persone oggi sono alla ricerca di risposte, in modi diversi, perché il Cristianesimo ha lasciato un buco da colmare. La saggistica filo buddistica, lo yoga, il mindfullness, oggi vanno tanto di moda e sono sintomo di bisogno di una ricerca. La mia opera è resa appetibile da questo, credo.
Il progetto sugli ideogrammi in che cosa consiste?
È un continuo fluire di ispirazioni ed è il lavoro su cui sto puntando. Gli ideogrammi li ho già presentati in una mostra. Per ora ci sono i primi dieci, ma in un serbo ne ho un’altra trentina. Quello che immagino è creare una sorta di linguaggio. Infatti si tratta di segni, segni posturali: facendo un lavoro di “caracter design”, cioè sul comportamento nella sua forma archetipale più antica, li ho destrutturati per farli diventare un ideogramma. Il linguaggio ideogrammatico è nato così: vedendo i comportamenti, destrutturandoli e nel tempo semplificandoli. Significa quindi cercare l’origine, riprendere le tracce di una spiritualità antica, fatta di cose semplici. Il lavoro è costruire il linguaggio cui ho aggiunto anche la fonetica con la mediazione tra inglese, cinese e italiano. È un lavoro sperimentale sull’importanza delle vibrazioni, dell’emissione di suono a livello spirituale: il grido o il sibilo o il lamento e ciò che riguarda il mantra. Questo è diventato anche un libro con una storia, per cui sto cercando una casa editrice, gira intorno al fatto che la posizione seduta è sacra. Perché, in un mondo come il nostro, dominato dal caos, è assurdo stare seduti, fermi, e questo può diventare una cosa sacra. E siccome oggi non siamo più in grado di definire le cose sacre, con la destrutturazione del linguaggio, secondo me, questo può tornare fuori. Serve a potenziare alcune cose di cui non ci rendiamo conto, perché il linguaggio le semplifica. Sulla mia pagina Facebook si trovano tutti gli ideogrammi, non il racconto, uniti a un piccolo trafiletto di spiegazione.
Cos’è il sacro per te?
Sta a significare qualcosa di importante che trascendo l’essere umano. La mia riflessione è un cammino spirituale che vuol condurre alle radici di te stesso. Postura, posizioni, voce, suono: in questo caso il linguaggio è sacro. Per me destrutturare è cercare di arrivare ai punti emotivi essenziali della vita. Quando ne scopro uno penso che quello sia sacro. È una ricerca per me e per gli altri, anche se non è facile.
E poi ci sono le mostre.
Sì, seguo le esposizioni di Uga, Unione Giovani Artisti, del cui direttivo faccio parte e come associazione proponiamo mostre e anche io ho esposto un anno fa a Sestri Levante. Da Tiger sto esponendo “Limone e Fiore”, con le illustrazioni realizzate, invece che su tavola in cartaceo, in tessuto, che riporta a un testo più “sacro”, ma intanto sto progettando una mostra su tutti gli ideogrammi.