Due spettacoli in nome dell’inclusione sociale e della speranza per una vita migliore, fatta di accettazione e consapevolezza. Questo grazie al teatro sociale di Anna Solaro, che porta in scena, insieme alla cittadinanza, le detenute del carcere di Pontedecimo con “Giochi senza Frontiera” (8-9 maggio all’Archivolto) e i pazienti psichiatrici interpreti di “Quando le cose si dimenticano riaccadono” (10 maggio nello Spazio 21).
Oggi si debutta con le detenute del carcere di Pontedecimo.
Al teatro dell’Archivolto l’8 e 9 maggio va in scena “Giochi senza frontiera”, uno spettacolo prodotto con i contributi di un bando Regionale Fse “Abilità al plurale”, che prevede dei percorsi di inclusione attraverso formazione di varia natura, quindi anche quella teatrale. Questo bando ha accolto in pieno quello che facciamo da 20 anni. Finanzia tutti i nostri progetti di teatro sociale, quindi dal lavoro di teatro-carcere, a quello d’ambito psichiatrico, a quello con le donne vittime di violenza. Quindi, noi che lavoriamo per l’inclusione attraverso il teatro, abbiamo potuto mettere in scena "Giochi senza frontiera”. Sono 12 detenute del carcere di Pontedecimo insieme alla cittadinanza, dai piccoli di una scuola primaria, la “Anna Frank” di Serrà Riccò, agli alunni della secondaria di primo grado “Don Milani”, ai genitori e insegnanti e cittadini che negli anni sono rimasti con noi.
Che genere di spettacolo è?
Si tratta di uno spettacolo che trae spunto dal gioco televisivo che ci ha accompagnato anni fa, che raccontava in bianco e nero un mondo a colori, in cui tutti giocavamo senza frontiere, col concetto di Europa che poteva aprirsi, stando tutti insieme. I tempi poi sono cambiati e pur avendo la memoria del bel ricordo, abbiamo portato in scena il gioco anche quando rispetto al gioco si sono sviluppati problemi. La popolazione detenuta è fuori dal gioco esistenziale, è messa alle corde. Sono donne che hanno trasgredito, che hanno giocato pericolosamente alzando la posta in gioco e non stando alle regole. È come se ora stessero ferme un giro, come quando si gioca a Monopoli. Con loro abbiamo fatto queste riflessioni: cosa è significato giocare sul filo del rasoio, di cosa si ha bisogno per rimettersi in gioco quando si sta troppo fermi e si rischia di non poter più rientrare nel gioco. Sono parecchie e poter tornare in forma allenati alla vita di tutti i giorni, richiede riflessioni e aiuti non da poco. Si è lavorato, quindi, sul concetto di regola, di fare squadra, dello stare insieme e dello stare fermi.
Tutto questo com’è stato trasposto in testo teatrale?
Da lì c’è stato un racconto sistemato drammaturgicamente da Marco Tulipano, mentre io sono regista. Sul palco porteremo questi argomenti attraverso scene corali, visto in scena ci sono anche bambini, gli adolescenti e gli adulti. Io ho lavorato nella conduzione dei tre laboratori a distanza: in carcere, con gli adulti e ho coordinato il lavoro condotto dagli insegnanti. Abbiamo lavorato a distanza sviluppando una conoscenza, nel senso che i bambini e gli adolescenti si incontrano sul palco, ma prima si sono conosciuti tramite le lettere, la presentazione portata da noi nei vari laboratori, e i bambini hanno scritto lettere e sulle descrizioni delle donne hanno fatto dei disegni in cui le donne si sono riconosciute. Gli adolescenti hanno lavorato su impronte digitali, trasformandole in disegni, simboli e scritte. Il lavoro fondamentale nel processo è stato raccontare alle donne che fuori c’è una compagnia di attori che rappresenta una società che si prepara all’inclusione, dai piccoli ai grandi. Lavorare con questi attori particolari significa prepararli, indicare chi sono le detenute, come ci si deve rapportare rispetto a questa popolazione, cosa si deve fare come cittadinanza esterna? Quindi abbiamo formato i piccoli e i grandi sulla cittadinanza attiva, sull’inclusione, sul non giudicare, sul concetto che le persone non sono il loro reato e hanno diritto alla riabilitazione, a un’altra possibilità.
Cosa rappresenta per le donne in carcere questo genere di lavoro?
Le donne sanno che possono contare anche su una parte di comunità, quella degli adulti soprattutto, che può rappresentare un gruppo di riferimento altro, rispetto a quello a cui erano abituate; un gruppo, volendo, amicale. La realtà è ovviamente molto difficile e complessa, ma negli anni abbiamo avuto esperienze positive in questo senso, perché con alcune donne della popolazione detenuta manteniamo una relazione una volta che sono fuori. Un ex detenuto, per esempio, viene a fare teatro con noi al Teatro dell’Ortica. Quindi l’idea è che per loro sapere che fuori c’è una società che in qualche modo si impegna all’inclusione è aprire una speranza, è provare a ricontattarsi loro stesse come persone. Nel momento in cui non hai sguardo giudicante addosso, infatti, attivi meccanismi diversi.
Che donne sono queste che fanno parte dello spettacolo?
Le persone vengono coinvolte rispetto alla motivazione e al bisogno che hanno rispetto al percorso teatrale, che rientra in un ambito trattamentale. Sono persone particolarmente predisposte o in difficoltà per avere spazio per aprirsi e avere relazione con l’altro. Lo spettacolo così dà un grande aiuto a reggere la detenzione. Moltissime di loro hanno figli, e per loro avere la possibilità di incontrare altri genitori che con piacere si mettono a lavorare con loro e fanno lavorare i loro figli, è estremamente incoraggiante, non sono giudicate dalle loro pari, che, anzi, lasciano che un figlio faccia un pezzo di strada con loro. I figli delle detenute non partecipano allo spettacolo, ma spesso vengono a vedere il lavoro, quando le condizioni lo consentono. È un’esperienza sempre molto positiva, le donne son contente di mostrare di poter mostrare qualcosa di sé positiva, di fare vedere pubblicamente una capacità, visto che sono state pubblicamente condannate e questo palco è una sorta di riscatto. Negli anni ho incontrato i figli e i familiari che in genere hanno beneficio da questo incontro, che è come se li commuovesse e unisse. Il teatro è anche occasione per riallacciare i rapporti con i familiari. E sono in rapporto anch’io con alcuni di loro.
Si celebrano i 40 anni della Legge Basaglia: ma a che punto siamo nel concreto?
Ancora tanto percorso deve essere fatto. I festeggiamenti sono estremamente significativi, e si sigla un patto di cura con la città, in cui si cerca un’apertura con cittadini, un coinvolgimento maggiore dei pazienti psichiatrici, con la logica inclusiva della città che cura, antagonista al manicomio, lager di casa nostra, ma anche a mentalità ghettizzanti, quindi la partecipazione ai processi di cura e salute mentale come bene collettivo è ancora in itinere. Quindi la via segnata dalla Legge Basaglia, con l’abbattimento del manicomio e la ripresa della centralità della persona è una linea che va ancora percorsa e resa moderna, perché coincide sempre più con i nostri bisogni, con la fragilità collettiva che ci riguarda sempre di più, col venire meno di tanti punti di riferimento. Occorre che anche le istituzioni vengano a incontrare la comunità. Quindi sono quarant’anni da celebrare in modo concreto con un fare comune, come dice Quarto Pianeta, l’associazione di cittadini e pazienti costituito a difesa di Quarto, “rigeneriamoci”.
Il teatro sociale come festeggia questo anniversario?
Il teatro sociale sarà presente in questa celebrazione il 10 maggio alle 20.30 a Quarto nell’ex ospedale psichiatrico, nell’ex spazio 21, che erano le cucine del manicomio, dove porteremo in scena “Quando le cose si dimenticano riaccadono”, che è un testo scritto da Armando Misuri, che è mancato da poco tempo, era un attore di “Stranità”, mio amico carissimo ed ex paziente. Un poeta che ha scritto la sua storia dentro al manicomio di Quarto e ha lasciato una testimonianza fortissima: rispetto alla Legge 180 richiamava un bisogno di memoria attiva. I pazienti erano trattati e pensati come problemi all’interno di lager che erano conosciuti da tutti e voluti dai più. Perché non riaccada questo è necessario essere, per così direi, dei partigiani, sapere bene da che parte stare, e l’unica cosa da fare è riporre al centro il malato-persona, accoglierlo come persona lavorando con la malattia e non sulla malattia, sulla consapevolezza, sull’accettazione della malattia, informando e formare la popolazione per creare mutualità e vicinanza. Consentendo così a tutti di accettare le nostre fragilità, perché la malattia mentale rappresenta, codificata, una fragilità che è di tutti noi e la comunità è l’unica cura.
Chi si occupa di teatro sociale quali competenze deve avere?
Si tratta di un dibattito in corso. Che competenze deve avere l’operatore di teatro sociale? Di che tipo di inclusione parliamo? Per la mia esperienza credo che l’attore e il regista di teatro sociale debbano avere competenze multidisciplinari ed essere dotati di sensibilità umana particolare ed essere un attore moderno, calato nei tempi e nei bisogno della società, intercettandone i bisogni e intervenendo con lo strumento teatrale. Esser capace di attivare prese in carico responsabili, cioè porto gli attori in scena e me ne occupo. E’ prendere e condurre verso la società, verso l’includere e il pubblico deve essere attivo nel processo di inclusione, non spettatore passivo. Quindi credo che chi fa teatro sociale deve avere competenze non solo artistiche, ma anche di tipo educativo, psicologico, terapeutico e saper creare reti con le altre realtà della cura, Asl, carcere, altri operatori di riferimento, e che sappia parlare un linguaggio comune che stia in equipe multidisciplinare.
Qui quanti siete a fare teatro sociale?
Ci sono altri modi di farlo, per questo si aprono dibattiti grossi. Io ho una cura estrema del percorso e del processo, sto attenta che le persone abbiano benefici dai percorsi, che non si scompensino, che i pazienti stiano bene, possano poter passare del tempo libero con le persone, avere relazioni amicali alti, avere luoghi d’ascolto, essere collaborativi con i servizi, avere un aiuto rispetto ai servizi e alla cooperazione. Quindi un lavoro che non si esaurisca solo nella messa in scena. Poi si arriva allo spettacolo, che però ha già beneficiato di una bellezza fatta di umanità e incontro. Se ho una popolazione detenuta addestrata al fare, ma senza che ci sia volontà e consapevolezza, non li prendo. Ci sono anche altri modi di operare, che si spostano verso la performance. Artisticamente il prodotto può essere qualitativo, ma non si può pensare che questo passi attraverso dei rischi di scompensazione di chi hai in carico. Bisogno stare bene durante tutta l’esperienza.